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Uguale e diverso, allo stesso tempo

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UNO . Ho conosciuto uomini venuti al mondo col carisma della sensibilità . E il mondo se ne prese cura donando loro un sogno, da crescere, e vivere. DUE . Ho conosciuto uomini venuti al mondo col carisma dell' aridità . E il mondo se ne prese cura donando loro prelibatezze d'ogni mazzo, e primizie, che essi ebbero a consumare all'ombra degli onori, disconoscendone il pianto e quel cremisi , che d'altro amore MAI sarà più il canto. Mentre sorridevo ai primi e schivavo schifato i secondi , interrogavo il mondo maledicendolo incredulo. Fu allora che conobbi un giovane vestito da vecchio, arrivato da chissà dove, chissà perché. E anche di lui il mondo s'era preso cura, donandogli la sensibilità dei primi e nulla dei secondi, un paio di occhi per piangere e un cuore per soffrire. Perché egli potesse desiderare, e non avere. Avere, e non possedere. Possedere, e mai di prima mano. Sentirsi meritevole come un'anima in credito ed essere come il 2 tra i numeri primi: ugua...

La conta dell'eternità

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Le cercai una mano. «Facciamo l'amore?», gliela buttali lì, così.      Pervenni alle dita, che come gliele sfiorai, s'arricciarono: c ome una chiocciola che d'improvviso rincasa.      Con la palma le circondai il pugno: g elido.      Curioso però , pensai. Proprio lei ch'era sempre stata la mia stufetta , così l'avevo ribattezzata sotto le coperte.      Quando fa freddo e ti infili a letto, i primi minuti sono quelli clou : terra di nessuno. Non fai neanche a tempo a formulare un pensiero che abbia un capo e una coda. Una serie di brividi si propagano lungo la schiena, il solo bisogno che senti è quello di scaldarti: freghi le mani, agiti i piedi: scalci.      Io m'attaccavo a lei, ch'era sempre nuda. Intrecciavo le gambe alle sue, ch'erano fuscelli lunghi e levigati. Me la stringevo. L'attiravo al petto come se fosse d'un materiale malleabile. Come se potessi, a poco a poco, farla rientrare per intero nel mio ab...

Ed è già giorno, oramai

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Se conoscessi le lingue, saprei a chi pensare, e cosa dimenticare. Se fosse notte, ed io in sentimenti, saprei a chi scrivere. Se avessi un barlume, lo spezzerei per farne un faro e dipanare quel dedalo che tardivo riconosco. Se conoscessi. Se fosse. Se avessi. Ma io non conosco. Non ho. Ed è già giorno, o ramai.

L'imbroglio della notte

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Vorrei che la notte mi abbracciassi, perché io non debba lottare a più d'un palmo dal tuo seno. Vorrei che la notte mi strappasse l'udito, perché io non sia più costretto ad ascoltare quello che vedo. Vorrei che la notte, vigliacca, non venisse più di notte, perché io, ad armi pari, la possa fronteggiare. Vorrei che la notte mi gridasse in faccia quello che non m'hanno mai nemmeno sussurrato, perché io possa credere. Vorrei che la notte non mi facesse più paura, mentre sono là, comodo, che non l'aspetto. Ma lei arriva, sempre. Ed io sono solo.

Sono abituato agli abbagli

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Sono abituato agli abbagli.      Alla mia età dovrei, tutto sommato, averci fatto il callo.      Ed è così, in un certo senso.    Tuttavia, c'è ancora una porzioncina che m'appartiene, quella che tradisce l'avvedutezza a favore della pancia, che tutt'ora sbalordita s'inalbera.      T'affanni alla ricerca delle mele più belle, perché ciò che è importante merita il tuo tempo, fosse anche l'ultimo. E t'accorgi che una volta a casa, svuotato il cesto, il premio si risolve in un mero far di conto. In fondo, ti dici, quattro mele rosse o quattro mele gialle o quattro mele col lepidottero fanno sempre quatto mele per chi non respira il tuo affanno, non piange le tue lacrime, e non anela a guardare le tue spalle.      Sono abituato agli abbagli.      Per questo ho smesso di fare il cercatore, di mele , nel mucchio.     Adesso me le faccio comperare: al mercato, un tanto al chilo.

"Hai paura?": quella, era la domanda

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A che serve girarci intorno: stavolta l'ho sentita.      Ed era la prima volta, benché fosse nell'aria: era già qualche mese che mi avvertivo  strano . Mia mamma mi diceva: non ti vedo bene in viso. Ma io non ci davo troppo peso, mi convinsi che fosse una condizione psico-fisica dovuta all'eccessivo stress, che non m'è mai mancato.     Quella notte non  erano più solo vibrazioni ovattate che orchestravano nella penombra. Quelle che, per inciso, s'annidano nel sospetto e ruotano in circolo mentre tu smarrito stai nel mezzo, ma che poi alla fine non senti mai: il petto s'acquieta e finisce là.      Ma non era nemmeno una campana, come s'erano affrettati ad avvisarmi: era piuttosto una voce menata dal vento e che soffiava di lontano. Un po' come quando sei lì che pesti la banchina e alle orecchie ti arriva il fischio del treno che ancora non vedi. C'è gente vicino, s'arrabatta, maneggia maniglie, concitata alza la voce, si bacia. Tuttavia, ...

Schiava

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Schiava Schiava. La chiave che implorasti per sentirti libera. Schiava! Gridavi, allorquando ignuda ti votavi al Padrone che sceglieva le tue vesti: perché non patissi l'inverno. Purtuttavia, tu invereconda, sfoggiasti nella brama del disfartene il solo tuo guizzo: perché egli ne respirasse gli effluvi e, assetato, spillasse i pregni . Schiava. Perché tu lo trascinassi nella foschia più lasciva, ove storia non fu mai scritta. Schiava. Perché il Castello difettava d'una Padrona, e di Vita dritta nelle vene, del Padrone.

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