L'incontro romantico-introspettivo tra Massimo e Kriss, al lago di Fogliano

 

Silhouette di Kriss, vista di spalle
Scena al lago di Fogliano


Ho voglia di farvi leggere un mio brano, tratto dal romanzo giallo che ho pubblicato meno di un anno fa: MORTE DI UNA COMMESSA. Mesi or sono, scrissi un post dove ne raccontavo il dietro le quinte, chi avesse voglia di leggerlo, e di leggermi, questo è il link alla pagina: MORTE DI UNA COMMESSA.

Nonostante il romanzo sia un giallo, all'interno ho inserito una trama secondaria, romantica, introspettiva e passionale, che culminerà nelle ultimissime pagine. I protagonisti della narrazione sono il commissario MASSIMO DEL MONACO e la dottoressa KRISS TERZI, medico legale.
Il capitolo che ho scelto di farvi conoscere, comincia con Massimo che raggiunge Kriss in un luogo incantevole dell'Agro Pontino: il lago di Fogliano. I due non si conoscono da tanto, ma tra di loro c'è un magnetismo raro. È in questa scena che, il loro rapporto, cambierà inesorabilmente.
Mi auguro che, in qualche modo, vi piaccia.

Il commissario Massimo Del Monaco arrivò alla zona adibita a parcheggio. C’erano sì e no una decina di macchine, sistemò la sua e si diresse verso il lago, che già s’intravedeva di lontano.
Il vento imprimeva alle foglie una sorta di moto ondoso. Un letto di fronde brune striate di rubino che fluttuavano e s’increspavano finanche in cuspidi, frusciando sopra un tappeto di graminacee. Esse si levavano alla quota d’una spanna e un pugno e volteggiavano, conservando in quelle mosse misurate e fascinose un germe di incantevole periodicità: un andirivieni spasmodico, di sbieco a quel fazzoletto di terra bagnato dalle acque. Acque che il Tirreno iniettava e suggeva, defilate e salmastre.
Un cordone di dune litoranee separavano il mare dal lago, la cui battigia originava all’ombra dei palmizi e correva, curvava, correva nuovamente e ricurvava, arrendendosi infine sull’imbarcadero. Proprio là, dove la sponda s’apriva al borgo, col suo prato all’inglese, gli animaletti girovaghi, gli eucalyptus, le palme nane, gli allori e i lecci.
Ai margini del prato v'era una staccionata. Una maglia perimetrale bassa e dall’aspetto ballerino, fatta di piccoli tronchi inchiodati alla bell’e meglio che, anziché protezione, suggeriva timidamente che la stabilità non era il suo forte.
Proprio all’imbocco dell’imbarcadero, dirimpetto alla staccionata, v’era sistemata una panchina di metallo grezzo che, solo a guardarla, dava un senso di brezza gelida sulla pelle. La spalliera, era evidente, non aveva sedotto la fantasia dell’ideatore, sicché non la previde affatto. Pertanto, quello che faceva di quell’opera spartana un oggetto di sollazzo per le terga erano, orbene, dieci tubi di ferro battuto saldati contiguamente, a loro volta bullonati a una coppia di cavalletti inforcati nel terreno.
Ed era proprio là ch’era diretto il commissario.
Avanzava con passo spedito e nonchalance e, a ogni falcata, l’orlo del pantalone di lino antracite gli ondeggiava attorno alla caviglia, morbido, come se danzasse e, a ogni slancio, carezzava l’erba ancora umida di rugiada.
Tagliò il prato zigzagando tra gli arbusti. Aggirò un porcospino, due nutrie e un congresso di anatre, ritrovandosi a poche mosse dalla dottoressa Kriss Terzi, ch’era accomodata sulla panchina e gli dava le spalle.
E lì, in preda a un palpito che non seppe spiegarsi, si fermò.
Da quella prospettiva non era nella grazia di valutare il di lei sguardo, ma quella stasi delle membra che giudicò marmorea lo convinse che esso fosse assorto. E d’altronde, come avrebbe potuto non esserlo? Ella aveva dinanzi un quadro dannatamente mozzafiato: uno specchio d’acqua tra i più suggestivi, piazzato in un contesto che nulla suggeriva della città pur a due passi. Uno scenario anomalo, esotico, che stregò persino il blasonato Wyler, seducendolo al punto da fargli girare - nel ‘59 - certune sequenze del suo Ben-Hur.
Un assembramento di anatre, d’un tratto, ruppe quel godibile silenzio e cominciò un lungo starnazzare concitato, come se protestassero al passaggio della carovana di spatole che proprio allora aveva preso a transitare nei pressi della riva, invadendo senza complimenti né inviti lo spazio visivo delle ugole d’oro. Una si liberò dal plotone e spiccò il volo, con le zampette penzoloni secche e normali al pelo dell’acqua, ch’era sfiorato pressappoco d’un palmo. Le più diligenti, invece, immergevano il becco curioso e fuori misura agitandolo come farebbe un contadino con la falce, forsennatamente, ora da un lato ora dall’altro, finché il barlume di un’occasione non si fosse tramutato in pasto. 
Dove le acque erano più basse emergevano piattaforme rudimentali in legno di quercia, che i cormorani prendevano di mira sostandovi in gruppo. Muovevano gli occhi e qualche passo, e digrignando il becco a uncino si fiondavano prepotenti in picchiata, per poi riemergere, talora, con un malcapitato pesciolino stretto tra le fauci e segnato dal destino.
Il paesaggio, fuori da ogni cliché, era per davvero da cartolina: oltre il lago, nella direzione di Rio Martino, il profilo del Circeo imperava sullo sfondo. Altrove, v’era solo l’azzurro del cielo e l’amalgama delle nuvole, che parevano batuffoli di soffice cotone accovacciati l’uno sull’altro.
La silhouette della donna, seppur di spalle, s’era svelata a sufficienza e si presentava fasciata da un cappotto scuro, leggero, col bavero sollevato. I capelli, vivacizzati dalla brezza, mulinavano sulla schiena.
Attirata forse dal rumore dei passi, si voltò con mezzo busto e gli sorrise, con quelle fossette che, ineffabili, le inghiottivano gli angoli delle labbra. 
La raggiunse e spalancò le mani. «Sei stata un furetto!», esordì compiaciuto.
Ella scattò in piedi come governata da un moto di visibilio e si fiondò a gettargli le braccia al collo. «Te l’avevo detto che stavo nei paraggi. Ma quanto ti sono mancata, eh?», si staccò di scatto e lo puntò di traverso facendogli l’occhiolino. «Dai, dai, su, Massi! Sbilanciati pure, stupiscimi!», esclamò accodando un sorrisetto a dir poco allettante. «Sarò una tomba», e mimò il gesto di sigillarsi le labbra.
Egli rifletté sul fatto che era la prima volta che usava un diminutivo per chiamarlo. E non era il freddo Max che alle volte gli rifilavano, ma era un assai più affettuoso Massi, che in materia di contrazione delle distanze la sapeva lunga. E poi quel modo vistoso di strizzargli l’occhio sbattendo le ciglia, inclinando la testa e increspando le labbra in una sorta di lazzo magnetico. C’era poco da nicchiare, quella smorfia lo mandava ai matti. Era come se nel tempo di quel battito di ciglia ella si fosse denudata, integralmente, dissociata da quell’alone algido onnipresente che scoraggiava gli approcci informali e la rendeva impenetrabile, a chiunque.
«Oggi si sta proprio bene, non trovi?»
«Se non fosse per il vento…», commentò lui facendo vagare lo sguardo.
«Naaa», schiuse le labbra e sul volto saettò un sorriso voluttuoso. «Si sta bene», insistette, facendo per sbottonarsi il soprabito. «Mi aiuti?», girò su se stessa e gli offrì le spalle.
Lui glielo sfilò. Prima una manica e poi l’altra, ma fu nel bel mezzo dell’alternanza tra i due gesti che gli occhi catturarono il collo. Così delizioso e così sottile, il collo d’un cigno, che ella manovrava con la grazia d’una ètoile. Percepì le proprie labbra ammorbidirsi, accalorarsi, mentre manifestavano il loro personalissimo apprezzamento schiudendosi in un sorriso lampante, rincarato al postutto da uno sbuffetto compiaciuto. «Eilalà! Fatti guardare un po’», e indietreggiò di un paio di passi per ammirarla nella pienezza della sua grazia.
Lo lasciò rosolare nella trepidazione d’una attesa struggente, eccitante. I suoni parevano inghiottiti da un’entità compiacente a loro asservita. La natura animale e vegetale che fino ad allora aveva agito laboriosa al loro cospetto, pareva adesso piantata sullo sfondo, come un dipinto spiaccicato a un livello sottostante.
E fu proprio in quel buco temporale di inanimata stasi che la donna fu scossa da un fremito, tradito dai pugni abbandonati lungo il corpo che si serravano, sbiancando appena sulle nocche. Probabilmente si rese conto che, al di là delle bellezze che l’attorniavano, era diventata lei l’attrattiva principale: il panorama. Si voltò con la leggiadria d’una libellula: una creatura senza peso che accarezzava l’aria, e simulò un inchino. Indossava un tubino arricciato color vinaccia, sbracciato e con spalline di filo di perle. 
Le prese le dita di una mano, le sollevò il braccio oltre la sua testa e la condusse a compiere un nuovo giro su se stessa. Il ventre era maledettamente piatto, ma le pieghe dell’abito aderivano così strenuamente alla figura che i fianchi parevano soffocare, e soffocarlo.
«Vedo che sei arrivata armata», proruppe con voce profonda e sorriso malandrino. Uno sguardo ch’era il prodotto di emozioni, e desideri, che se non fossero stati mitigati dall’illustrissimo censore impilato nella mente, avrebbero assunto ben altre pieghe. Nella versione edulcorata, l’avrebbe braccata attirandola a sé per le cosce, giusto il tempo di vederla trasalire, poi gliele avrebbe frizionate nella morsa delle palme in corsa verso il sedere: linee, di quest’ultimo, che giocavano con la perfezione delle simmetrie e confinavano quelle carni nel perimetro di un cuore, rovesciato e pieno, messaggero d’ancestrali inviti; e ce l’aveva a un’inezia dalla faccia, quel cuore, a un nonnulla dalle labbra. Bastava volerlo. Avrebbe affondato le dita là ove completava la schiena e cominciava la morbidezza dei balocchi. L’avrebbe sollevata senza cura, e lei, per tutta risposta, gli avrebbe intrecciato le mani al collo e avvinghiate le gambe al bacino con uno scatto felino. Si sarebbe appiattita contro il suo petto e lui avrebbe goduto del tepore dei suoi seni, lasciando alla concupiscenza il compito di riempirgli i pantaloni, e a lei, quello di slacciarglieli. Sarebbero finiti su quel prato all’inglese. Senza retaggi morali né pudori. Solo lui e lei, Massimo e Kriss, un uomo e una donna che si volevano come nessun uomo e nessuna donna s’erano mai voluti. Famelici, come gli amanti: sognatori d’una vita inafferrabile che non prevedesse che loro. E pur tuttavia, condannati a morire di istanti, lucrati a chissà quale facciata, chissà a quale segreto. In fin dei conti, smessi i panni istituzionali, nessuno dei due conosceva davvero la vita dell'altro.
«Sediamoci», disse lei, sistemandosi sulla panchina in due tempi, sedendosi dapprima al centro per poi traslare sul bordo alla sua sinistra. «Sai a cosa pensavo?», lo sguardo fisso davanti a sé, in un punto vago del lago.
«Non ne ho idea», lui era convinto che non fosse una vera domanda, ma che fosse più il pretesto per cominciare una conversazione, magari facendosi cacciare fuori le parole con le tenaglie.
Scosse la testa. «Lo immaginavo», il tono era pregno di rassegnazione. «Voi uomini siete fatti con lo stampino. Sensibilità e perspicacia zero. Perlomeno in campo sentimentale.»
Grottesco però, pensò. Alla fine la colpa era la sua perché non equipaggiato del carisma della veggenza.
«Io non so nulla di te. Questo pensavo», ruotò con mezzo busto alla sua destra e gli piazzò addosso occhi interrogativi, fermi, spalancati.
La faccenda s’era fatta d’un certo peso, così come l’aria che si respirava, le fattezze non erano più quelle d’una scampagnata a cielo aperto: erano finiti sotto una cappa di fuliggine malsana. E tutto questo da un secondo all’altro, senza effetti di transizione. Doti, quest’ultime, che appartengono al solo genere femminile. Fanno, disfano, hanno sempre ragione e se qualcosa va storto, la colpa è tua.
«Sai quello che devi sapere», rispose risoluto e secco. Non era un uomo impulsivo, eppure, s’era già pentito d’aver fiatato. Per come la conosceva, quelle cinque parole di per sé innocue, impilate in sequenza avrebbero scatenato un putiferio.
Scattò in piedi tarantolata, tant’è che l’orlo del vestito rimase inceppato lì dove era arretrato nell’atto precedente di sedersi. «Ma allora mi dici perché diavolo mi hai fatto venire qui, al lago, nel mio unico giorno libero dopo settimane?!?», tuonò piccatissima. «Se si trattava d’una consulenza professionale avresti potuto aspettare domani! Fuori dall’orario di lavoro voglio vedere le persone per le quali sono solo Kriss e non la dottoressa Terzi!»
«Okay», disse lui prolungando la seconda sillaba. La invitò a sedersi con un gesto della mano. «Ricominciamo?», fu il suo modo di scusarsi e le sfiorò le dita della mano ch’erano rivolte verso l’alto, come le zampette d’un ragno capovolto, finito chissà come su quel ginocchio ossuto, e nudo.
Quel tocco sembrò addolcirla. «Dai», mormorò placidamente. «Scusami. Non so cosa mi sia preso. Non mi scaldo quasi mai, ma con te ho sempre la sensazione di camminare su un pavimento cedevole, e mi dispiace, perché per quanto assurdo ti possa sembrare, io ci tengo a te. Mi piacerebbe conoscerti meglio. Non le gesta del commissario risolvi tutto e schivo, ma l’uomo che lo anima, senza sporzionarlo, con le sue follie, le sue fragilità, i suoi peccati: perché mi fa bene pensare che anche tu ne abbia. In una parola? Massimo. Ecco, chi è Massimo? Cosa piace fare a Massimo?»
Annuì sorridendole malizioso, capì da sé che per recuperare doveva smettere di nicchiare, e assecondarla. «Massimo è un uomo di quarantaquattro anni, che ha smesso di credere alla buona fede della gente, ma che a tutti dà un’occasione per smentirlo. Sa che finanche le mani più delicate, quando non vedute, possono affaccendarsi in sollazzanti trame. Che la gente si fidi o meno di lui non è un'informazione di valenza: perché egli stesso non si fida di nessuno. Disprezza i bestemmiatori. Non si accoppia con donne astemie per motivi di credo né con fanciulle per le quali non provi sentimenti inequivocabili. Piuttosto che bere un bicchiere di vino a pasto, come gli dice il cardiologo, preferisce l’acqua, e poi una bottiglia intera al fine settimana: perché è meglio una festa, che cento festicciole. Cultore delle matematiche e della microelettronica: si scrive da solo il codice del software che gli serve. Se vuoi fargli un regalo: vino, libri, whiskey… Esattamente in quest’ordine; il suo bourbon preferito è il Wild Turkey. Ah, un’ultima cosa: è pure un collezionista. Che dici, come sintesi di Massimo potrebbe bastarti?»
«Sì, potrebbe, per oggi. Ma adesso ho una curiosità: cosa collezioni?»
«Due categorie di oggetti. Una sono i microprocessori.»
«I microprocessori? Cioè?»
«I microprocessori e i circuiti integrati che hanno fatto la storia dell’informatica. Quello al quale tengo di più è il 4004. Risale al 1971. Il primo microprocessore realizzato. Ce l’ho in tre versioni, 4004 serie C, D e P, che custodisco in una teca. Lo progettò all’Intel un italiano, Federico Faggin. Ma queste sono cose mie, che non dico a nessuno, ché non interesserebbero a nessuno.»
«Ma a me le hai dette. Non ci ho capito un tubo, però me le hai dette.»
«Più che dette me le hai estorte con la forza dell’inganno morale. Hai fatto del tutto per farmi sentire in colpa.»
«No, no… Sei stato tu che non fidandoti di nessuno, ti sei semplicemente fidato di me. E hai fatto bene. L’altra cosa che collezioni?»
«Be’, questo non posso proprio dirtelo.»
«E perché mai?»
«Come si dice in questi casi? Perché poi dovrei ucciderti. E non mi va perché ho il vestito buono, e pure tu mi sembra. E poi il Fogliano è un posto sacro, ci vengo per riflettere, non per sporcarmi il vestito.»
«Se tanto mi dà tanto, immagino dunque che tu qui ci venga da solo.»
«Non è una regola. A volte ci vengo col signor Petit Verdot», scoppiò in una risata beffarda. «In macchina ne tengo sempre una bottiglia. Mi siedo qua, butto giù qualche sorso e mi lascio andare. Ah, a proposito… Prima che cominci a pensare male, non sono un etilista né un disperato e non m’attacco alla bottiglia: viaggio con una valigetta da degustazione nel portabagagli», represse sul nascere una risata strana e si sollevò sulle ginocchia, si sbatté le mani vigorosamente sulle cosce come se fossero impolverate e riassettando postura e tono di voce, tornò al discorso precedente: «La verità è un’altra, non posso rivelarti nulla circa l’altra mia collezione perché poi saresti mia complice e nulla sarebbe più come prima. Rimarremmo legati, e io non posso permettermelo: benché abbia un tetto, faccio la vita del viandante. Non sono un buon affare.»
«Che intendi per rimarremmo legati? Che tipo di legame?»
«Questo non so dirtelo. Ma indietro non si torna. Ed è per questo che non ti svelerò l’arcano. Per proteggerti. Da me. Da te. E da quella parte di te che nessuno sospetta e che, forse, tu stessa ignori.»
Gli occhi le si illuminarono di una strana luce, assunsero una posizione di sfida. «Voglio sapere.»
«Indietro non si torna.»
«Voglio essere tua complice.»
La fissò negli occhi e affondò il fendente. «Colleziono mutandine.»
Rimase interdetta, per nulla scandalizzata, ma sul volto le si leggeva una nota di delusione. «Credevo chissà cosa… L’hai fatta troppo solenne. Tranquillo, te l’ho già detto, sarò una tomba. Nessuno saprà che il tutto d’un pezzo commissario Del Monaco fa incetta di mutandine da signora. Giusto per curiosità, quante ne hai nel cassetto?»
«Ancora nessuna.»
«Ma che razza di collezionista sei?», l’attenzione era tornata alta e la delusione pareva adesso permutata in bramosia di conoscenza, di sapere come stavano le cose.
«Fino a mezz’ora fa collezionavo solo microprocessori. Poi, ho pensato alle mutandine: comincio oggi.»
Kriss stava per dire qualcosa cominciato con un balbettio, quando Massimo le si avvicinò, slittando di lato. «Vedi…», le poggiò una mano sulle gambe accavallate. «Ognuno di noi è tante cose, e abbiamo tre facce: una pubblica, una privata e una inconfessabile. Quest’ultima l’anneghiamo, facciamo finta che non esista, in fondo siamo persone serie, no? Ci abbiamo messo anni per cementare una reputazione irreprensibile. Certe volte sono solo fantasie, o perversioni, che reprimiamo per pudore o per l’incapacità di affrontare le conseguenze d’un giudizio troppo frettoloso, non ci piace essere giudicati, non piace a nessuno.»
«Io non credo di avere una faccia inconfessabile. Ne ho una privata.»
Abbassò le palpebre per un solo momento e sussurrò con voce sospirata: «Ce l’hai», sollevò il capo. «Tutti ce l’hanno, che lo sappiano o no. A volte occorre un’anima eletta che ti scopra e ti dica chi sei.»
«Ah, sì? Sentiamo… E come faccio a riconoscere costui, quest’anima, qualora la incontrassi?», il tono era insieme scettico e curioso.
«Sarà la persona alla quale non solo permetterai di spazzare via ogni paletto morale che t’eri imposta e che avevi imposto a chiunque, ma sarai tu stessa a desiderare che lui - e solo lui - li abbatta e conquisti ogni tuo anfratto: bramerai ciò per cui rabbrividivi.»
Quel lato di Massimo e quel discorso sembravano averla lasciata attonita. Stette in silenzio per secondi prima di farsi sotto con un filo di voce rammaricata. «La verità… La verità è che è più facile sfilarsi i vestiti, che denudarsi i pensieri.»
La sensazione era che quella frase fosse la sintesi di elucubrazioni già saggiate e forse archiviate, magari con una nota di afflizione a margine. 
Massimo chiuse gli occhi e cominciò ad annuire ben prima di riaprirli. «Lo so», disse. Si tirò su e fece due passi fino alla staccionata perimetrale davanti a sé. Dandole le spalle fissava il centro del lago, e quel sole, che giocherellando con l’acqua creava riflessi rutilanti sulla superficie.
Si riscosse in tre tempi con una fluidità che conferiva all’atto la naturalezza del movimento unico, d'emblée: indietreggiò con una gamba, ruotò su stesso e le si inginocchiò dinanzi con la presenza scenica d’un cavaliere devoto alla sua regina. Le faceva ombra sulle gambe, che esibivano una pelle serica, ambrata.
Le mani scattarono come manette arpionandole le ginocchia.
Subito un fremito convulso s’impadronì delle cosce, che sbatterono una contro l’altra, imprigionandogli i pollici. Il bacino scivolò in avanti come uno slittino sulla neve battuta. La gonna arretrò lasciando intravedere il candore delle mutandine, un triangolino di tessuto bianco e lucido che poteva essere seta.
La fissò negli occhi cercando un lampo di disappunto, un barlume, un’ultima chance per consentirle di tirarsi indietro.
Ma tutto questo mancò.
Le quattro pupille rimasero agganciate. I polpastrelli delle dita avevano preso a correre lungo l’esterno delle cosce, veloci come ragni. Guadagnarono l’orlo del vestito, vi si cacciarono sotto e acciuffarono l’elastico degli slip. Le unghie degli indici affondarono all’unisono nella carne, aguzze come spilli, fulminee come vespe. La donna, presa alla sprovvista, ebbe un sussulto che si propagò come un’onda lungo tutto il corpo. La postura vacillò e i glutei persero aderenza: con uno strattone le sfilò le mutandine, un colpo secco e le trascinò alle ginocchia.
Le labbra di Kriss tremarono, pur tacendo, così come il resto delle membra, apparentemente.
Massimo le cercò le mani e le prese i polsi, coi pollici premuti sulle vene. Portò gli occhi al collo. Qualcosa le si agitava sotto l’epidermide. Fece scivolare lo sguardo, alla gola, come se sapesse che era quello adesso il suo interlocutore, che disimpegnava le corde vocali a favore del linguaggio dei mimi. I movimenti dei muscoli si indovinavano sotto la pelle, deglutiva a profusione. Le pulsazioni battevano furiosamente sotto i pollici. La bocca dischiusa. Le gambe semiaperte. Le mutandine tese come una fionda. 
Le sollevò con garbo le gambe e insieme si liberarono di quell’indumento ormai voluttuario, lui facendolo scorrere attirandolo a sé e lei, forse come riflesso inconscio, spingendo indietro le ginocchia, trasformando un frangente di incantevole passività in una sinfonia complice. Perché è questo quello che erano adesso: complici. Di qualcosa.
Massimo fece vorticare le mutandine attorno all’indice della mano destra: erano diventate un’elica, un elicottero minaccioso che gli si avvicinava pericolosamente al volto, sfiorava le labbra, lambiva le narici. All’improvviso, abituato com’era a impartire ordini, impose al dito di paralizzarsi. Questo ubbidì di filato: si rizzò dritto come un’antenna, la circolarità del moto cessò e le mutandine gli crollarono sulla mano.
Con disinvoltura se le cacciò nella tasca interna della giacca, e le si sedette accanto.
Lo sguardo dell’uomo era schizzato tra i cespugli assieme ai cormorani, quello della donna, invece, abbandonò il lago e si posò sul profilo di Massimo, che ancora fissava davanti.
«E adesso?», disse lei.
«Che vuoi dire?»
«Adesso, chi sono per te?» 
«Sei sempre la mia dottoressa. Ma senza mutande.»
«Scemo.»
Lui sorrise.
«Qualsiasi cosa siamo, ti piace?»
«Mi piace perché so che piace a te.»
«E che ne sai?»
Torse il collo alla sua destra e per la prima volta da quando era tornato seduto la guardò negli occhi, e lo fece con una luce maliziosa; un po’ come a dirle: a che serve giocare ai finti tonti, lo sai bene che io so.
Le catturò i pensieri con quello sguardo, e lo fece a lungo, finché ella non sbrogliò da sé quella specie di quesito che aveva posto e che sapeva essere maledettamente retorico.
Agli angoli della bocca le spuntò un sorrisetto. «Che fine faranno le mie mutandine?»
«Finiranno nel comò della mia camera da letto: primo cassetto, in alto a sinistra. Anche se…»
«Anche se, cosa?»
«Lascia stare, sei una fanciulla moderna, non capiresti», ironizzò, quasi con sufficienza.
«Ti conviene parlare», gli strizzò l’occhio. «Perché tanto lo sai che con me non la spunti.»
«Va be’», fece spallucce. «Se proprio ci tieni… Preferisco i capelli lunghi.»
La fanciulla stralunò gli occhi e d’istinto girò la testa, squadrandosi le spalle e la porzione di schiena che riusciva a raggiungere. «Ti sembrano corti, questi?», il tono era vagamente seccato.
«Non fare l’ingenua, anche se mi piaci ingenua. Non mi riferivo a quelli, di capelli», chinò il capo e sferrò un calcio a un incolpevole sassolino che stava lì in terra, facendolo schizzare tra le rocce roride.
«Ma…», era arrossita fino al bianco degli occhi. «Ti sembrano cose da dire a una signora?»
Emise un sibilo di stupore col naso che gli fece impennare mezzo busto. «Ti ho sfilato le mutandine e sei stata zitta, poi ti imbarazzi per una più naturale questione di vello?»
«Ho capito, va… Lasciamo stare. E comunque, che ne sai tu di come porto il vello io?»
Massimo scoppiò in una risata divertita. «Davvero vuoi saperlo? Ti accontento. Quando stamattina ti ho richiamata m’hai detto ch’eri fuori mazzo grossomodo dall’alba per sbrigare delle faccende a Sabaudia, che hai fatto il lungomare avanti e indietro prima di rimetterti in macchina e venire qui. Dati alla mano avrai percorso, tra andata e ritorno, una cinquantina di chilometri in macchina e non meno di sei chilometri a piedi, con passo concitato e sotto al sole. Ergo… Se avessi avuto una farfallina bella folta… Tra parentesi come piace a me… Le tue mutandine avrebbero dovuto profumare di te, e non di vaniglia, quando me le sono avvicinate al naso.»
Kriss rimase basita.
Massimo pensò che il passaggio da colleghi a complici avrebbe dovuto ovattarlo meglio. Quel silenzio rischiava di fare rumore. Andava rotto. «Te l’avevo detto che non ero un buon affare», sdrammatizzò.
«No, non è questo. Anzi, è che…»
«Shhh», la bloccò mettendole due dita tese sulle labbra. «Per oggi, basta così.»  
«Però…», sembrava smarrita, come se sentisse il bisogno di aggiungere qualcosa, ma che non sapesse esattamente come formularlo.
A mitigare quell’atmosfera, provvidenzialmente, fu la suoneria d’un telefono, che si infilò spudoratamente nella conversazione inceppata...

Lago di Fogliano

Commenti

  1. Ho conosciuto i tuoi scritti sparsi proprio attraverso la lettura del romanzo. Mi veniva naturale tentare di scavare oltre le righe lo strano rapporto tra Massimo e la dottoressa ma c'è sempre stato qualcosa che mi mancava. Forse perché le donne quando vogliono qualcosa sanno essere più incise degli uomini. Più del capitolo che hai "postato" ho amato il dialogo conclusivo, quello a letto. Lì ho sognato.. ma pure tremato (per pensieri miei) e se posso permettermi, i pensieri del commissario li ritrovo sparpagliati nelle pagine più intime di questo diario.

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    1. È in un certo senso inevitabile che il protagonista maschile abbia più di qualcosa a che spartire con l'autore. Per di più nel dialogo che citi, in camera da letto. La sua Weltanschauung, i timori e il modo di amare non sono poi lontani dai miei. Fermo restando che è il commissario Massimo Del Monaco a muoversi nella storia, io gli ho dato solo una mappa...
      Serena sera, grazie tante per avermi letto.

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