Giallo italiano: MORTE DI UNA COMMESSA (bonus Capitolo 2)

 

Giallo italiano Morte di una commessa

2


Sabato | ore 18:00

La BMW del commissario Massimo Del Monaco arrivò al semaforo giallo in fondo al Pantanaccio con il lampeggiante acceso.

Il climatizzatore, regolato alla massima potenza, ghiacciava i vetri che, intimiditi dagli altoparlanti, tremavano indefessi. La batteria di Ulrich aveva appena tuonato sull’arpeggio in MI minore di Nothing Else Matters: la voce sporca di James Hetfield si diffuse nell’abitacolo. 

So close no matter how far
Couldn't be much more from the heart
Forever trusting who we are
And nothing else matters

Gettò un’occhiata furtiva all’incrocio e svoltò a sinistra pestando violentemente sull'acceleratore.
 
La carreggiata era stretta e alberata: una schiera di eucalyptus frangivento svettavano lungo i margini, scortando la strada per oltre quattro chilometri fino all’innesto con l’Appia.

Proseguì a velocità sostenuta per un bel pezzo. Dopo il capitello votivo, sollevò il piede dal gas viaggiando a passo d’uomo, finché non vide spuntare dietro un albero l’insegna che cercava: Vivaio Madreselva.

Allungò il collo oltre il sedile del passeggero per mettere a fuoco il cartello sottostante, allorché, con la coda dell’occhio, intercettò la sagoma di un uomo in sella a una moto provenire dal senso opposto. L'andamento era scomposto, così come scomposta era la testa che puntava ovunque fuorché davanti.

Dagli e dagli, e il tizio piombò sulla sua corsia come un bufalo dissennato.

Il commissario s’addossò allo schienale, s’attaccò al clacson e un barrito lungo quanto un treno monopolizzò i successivi quattro secondi. Mani e tromba s’acquietarono allorquando la testa del centauro, protetta da un casco fucsia integrale, ruotò di novanta gradi tornando finalmente a controllare la strada. 

Gli sfrecciò di fianco lambendogli in derapata lo specchietto laterale sinistro.

Spense d’istinto lo stereo e torse il collo per seguirne le evoluzioni attraverso il lunotto posteriore, ma oltre a una nube di polvere e gas, poté solo distinguere il fragore snervante del motore smarmittato in accelerazione. Scosse la testa digrignando i denti e, aggrappati gli occhi allo specchietto retrovisore, curiosamente, piuttosto che la dedica d’una imprecazione di rito, gli venne in mente un’associazione gastronomico-culinaria ben precisa: la mortadella di Campotosto, nota ai più con la denominazione di Coglioni di mulo. A quel punto dubbi più non v’erano: quel tizio non poteva che essere un emerito coglione, ma sul fatto che fosse di mulo non aveva contezza e così non abbozzò congetture.

Svoltò a destra. Davanti a sé aveva una breve discesa che s’accorse d’aver già imboccato, quando udì lo stridore degli pneumatici che smuovevano la breccia; completato l’esiguo pendio cominciava il parcheggio, ch’era organizzato a spina di pesce e proseguiva lungo tutto il perimetro visibile del podere. 

Posteggiò di fianco a una delle volanti della polizia già in loco. Uscì dall’abitacolo e s’affrettò a raggiungere il collega più prossimo, l’ispettore Mariani, col quale da anni faceva coppia fissa.

Il commissario Massimo Del Monaco indossava un completo leggero color sabbia sopra una camicia bianca col colletto sbottonato, senza cravatta e con la Beretta infilata nella fondina sotto l’ascella. Gli piaceva l’eleganza non effimera: funzionale. Così vestiva abiti su misura, onde evitare il classico rigonfiamento sotto il braccio sinistro, tipico degli indumenti preconfezionati. Amava i cappelli, e indossarne: quel giorno era il turno di un berretto patchwork di lino irlandese.

D’un tratto si sfilò i Rayban Aviator, si cacciò le mani nelle tasche e dall’alto del suo quasi metro e novanta prese a guardarsi attorno, inarcando un occhio e assottigliando l’altro: era così che squadrava il mondo e chi lo popolava. E questo esigeva silenzio.

Piazzò lo sguardo sul suo più fedele subalterno che gli veniva incontro con incedere giusto un poco claudicante, per causa di servizio. «Cos’abbiamo?», gli domandò non appena fu a distanza confidenziale.

Il suo interlocutore, l’ispettore Andrea Mariani, che per l’occasione indossava una polo color pistacchio sotto la giacca stazzonata, era un uomo sulla sessantina scarsa: canuto, alto tanto quanto da passare inosservato, in odore di pensione e con due infarti sul groppone. Era un poliziotto vecchio stampo, di quelli che badavano alla sostanza ed erano allergici alle carte, specie quelle che affollavano le scrivanie. Il compito dello sbirro, secondo lui, era quello di mescolarsi tra la gente, immergersi nel territorio e viverne gli anfratti: assorbirne il puzzo. Perché per riconoscere, devi conoscere. Ed è forse per questo che il leitmotiv del suo modus operandi era, per sua stessa ammissione, preso a prestito da una battuta di don Benito Rojo: La vita di un uomo, da queste parti, è spesso legata al filo di un’informazione.

«Una disgrazia, dottore. Abbiamo rinvenuto il cadavere di una ragazza nel laghetto laggiù», rizzò un braccio e tese l’indice verso un gruppetto d’anime a un paio di centinaia di metri all’interno del podere. «Il medico legale è lì sul posto.»

«Siete già a conoscenza delle generalità?», proseguì Del Monaco.

«Sì, era la commessa del vivaio», stavolta usò il pollice e indicò il negozio alle sue spalle, la cui intera facciata era realizzata in vetro. «Avrebbe compiuto ventisette anni domani, povera ragazza.»

«Hai preso nota dei presenti al momento del fatto?», chiese ancora.

«Era sola. Oggi è sabato e il vivaio è aperto soltanto mezza giornata», mentre ragguagliava il suo superiore, si udì un pianto femminile provenire da poco più in là. Era una donna sulla cinquantina abbondante, dai tratti minuti e dai colori scuri. Piacente e morbida in tutti i punti in cui dovrebbe essere morbida una donna.

«Chi è quella signora?», domandò il commissario osservandola affondare il viso nel petto di un uomo di media altezza e bell’aspetto, giovanile e azzimato, che le stava dinanzi. Notò altresì che la donna esibiva il polso sinistro fasciato.

«Lei è la titolare dell’attività e il tizio che la sta abbracciando è il terzo marito, non per spettegolare dottore, ma girano strane voci sul conto della signora, probabilmente spifferate da spasimanti non corrisposti.»

«Sentiamo ‘sti spifferi.»

«Lo sa come vanno queste cose, dottore. Quando la volpe non arriva all’uva…», l’ispettore aveva tempo da perdere.

Il commissario lo fulminò riarrangiando le sopracciglia.

«Taglio corto… Dato che i primi due mariti sono morti entrambi di attacchi di cuore mentre erano nel proprio letto, le malelingue hanno cominciato a proliferare dicendo che la donna fosse una panterona molto esigente… Non so se mi spiego…»

Soffocò una risatina tramutandola in due brevi colpi di tosse, e passò oltre. «Qui…», descrisse una circonferenza immaginaria con l’indice. «È tutto di sua proprietà?»

«Porcivói!», l’ispettore rise tossendo. «Mica solo questo. La famiglia della signora è più che benestante, la conoscono tutti da queste parti, hanno vari possedimenti, per lo più affittati. Sono i Pietrosanti, ne avrà di certo sentito parlare.»

«Se la passano bene, insomma», commentò retoricamente.

«Porcivói!», quel porcivói era un intercalare dell’ispettore Andrea Mariani, che infilava come il prezzemolo a mo’ di interiezione: ora come altroché! ora come che schifo! «Stanno carichi, dottó!»

Il commissario non ci faceva più neanche caso, erano anni che glielo sentiva dire quel porcivói, ed era diventata un po’ una cartina al tornasole: quando tardava troppo a pronunciarlo voleva dire che qualcosa non andava, che c’era puzza di bruciato, ch’era turbato.

Passò al sodo. «Vediamo un po’ che aria tira», estrasse dalla tasca interna della giacca il fido taccuino in pelle, sbrogliò il legaccio elastico e si fiondò all’indirizzo dei due coniugi.

«Signori», disse con un bel tono di voce mentre sollevava il ginocchio destro, rimanendo in equilibrio su una gamba sola come un fenicottero. Mise mano all’orlo del pantalone e, dalla fodera attaccata allo stinco, cacciò fuori un coltello a serramanico.

I due lo guardavano come se di fronte avessero un alieno.

«So che è un brutto momento, dei peggiori, ma devo rivolgervi necessariamente delle domande», disse loro mentre con la lama appuntiva la matita, ch’era ridotta a poco più d’un mozzico. «Mi presento: sono il commissario Massimo Del Monaco della questura di Latina.»

Dopo che ebbe riposto il coltello, l’uomo che gli stava di fronte si piegò in avanti e gli porse frettolosamente la mano. «Pietrosanti», disse.

Il commissario gli puntò l’indice contro, facendolo oscillare come una lancetta tra lui e la moglie. «Fate tutti e due Pietrosanti di cognome?»

Negò con la mano. «No, commissario, io faccio Ciampoli», rispose l’uomo con un inopinato timbro alla Truman Capote e tono lezioso.

Il commissario allungò la mano prima all’uno e poi all’altra, una stretta poderosa che fece loro spalancare gli occhi a turno, mentre li penetrava con lo sguardo: quello che sfoggiava ogniqualvolta qualcosa o qualcuno entrava nel suo raggio d’azione, o inchiesta.

I coniugi si scambiarono occhiate fulminee, la donna completò di soffiarsi il naso ed entrambi annuirono.

«Perfetto», disse il commissario. «Ordunque, andiamo per ordine: voi siete i proprietari del vivaio e la ragazza deceduta è una vostra dipendente, dico bene?»

L’uomo aveva già caricato il fiato, ma la moglie scoppiò nuovamente in singhiozzi detergendosi col dorso di una mano gli occhi anneriti dal trucco disciolto. «È stata tutta colpa mia! Solo mia!», gridò con le labbra impiastricciate di rossetto viola.

Del Monaco riacquistò l’attenzione piazzando una mano a mezz’aria. «Di questo avremo modo di parlarne. Adesso: che mansioni svolgeva la ragazza e perché si trovava sola?»

«Forse è meglio che parli io», decise il marito, stringendo la mano della moglie che pareva fin troppo provata. «Allora, Lidia era diventata un po’ come una figlia, noi non ne abbiamo. Ce la presentò due anni fa il suo fidanzato, Marco Corsi, che lavora anch’egli qui come giardiniere e tuttofare. Lui ha un contratto part-time, solo che adesso è in ferie, si è preso un paio di settimane senza preavviso per andare a trovare il fratello che vive al nord, ad Aosta; dovrebbe tornare al lavoro nel pomeriggio di dopodomani. Ma adesso, con questa tragedia...», disse con tono affranto, sorreggendosi la fronte con la palma della mano.

Dimezzando la distanza che li separava, si rese conto che poi proprio tanto giovane, quel Ciampoli, non doveva essere, perlomeno a giudicare dalle traiettorie dei ghirigori che gli si formavano intorno agli occhi; e che la gestualità accentuava depressi. «Vada avanti», lo esortò a spingere sull’acceleratore.

«Sì, mi scusi… Lidia era la nostra interfaccia con il pubblico, stava dietro il bancone col suo sorriso smagliante: consigliava il cliente e confezionava mazzi di fiori stupendi. Aveva del talento, sa? Mia moglie si dedica per lo più a curare la parte esterna al negozio e la vendita dei materiali per il giardinaggio; lavora solo mezza giornata, per poter badare pure alla casa e ai suoi interessi. Io mi occupo della parte amministrativa e, in generale, delle incombenze più rognose. Lidia non doveva trovarsi al lago: è stata una tragica fatalità!», si stropicciò un fazzoletto su un occhio. «Il laghetto era quasi pronto per l’inaugurazione di domani, mancava solo la pulizia della passerella che si spinge fino al centro, dove si posizionano i pescatori più smaliziati. C’erano da potare le foglie eccedenti delle ninfee, che oltretutto privavano della luce le piante sul fondo. Vedendo mia moglie col polso dolorante a causa del suo tunnel carpale, si era offerta lei stessa di aiutarla.»

«Quindi, c’era anche sua moglie quand’è finita in acqua?», proseguì facendo volteggiare la matita.

Sentendosi chiamata in causa, intervenne. «No. Io mi sono affaccendata a concimare il prato e successivamente ho preso il suo posto dietro al bancone. Come sempre, c’era un sacco di gente. Poi, prima di pranzo, dopo essermi fatta un bagno caldo, ho chiesto a mio marito di accompagnarmi al Goretti dov’è ricoverata mia madre, per portarle dei panni puliti. Siamo rimasti lì fin quando non ci hanno cacciati e poi di corsa a casa per preparare il pranzo. Qui, avrebbe chiuso Lidia, alle 14:00. Il sabato lavoriamo solo mezza giornata.»

La squadrò con sguardo perplesso. «Quella di lavarsi, qui, al lavoro, è una consuetudine?»

«Ehm… Quasi. Capitava sovente, sia per non sporcare la Porsche, sia per non dover passare prima a casa nell’evenienza di un impegno fuori. Come oggi, per l’appunto, che dovevo andare in ospedale. Anche Lidia teneva riposto un cambio d’abiti, le avevamo comprato un armadietto tutto per lei.»

«Perfetto. Adesso, era la prima volta che Lidia faceva la chiusura?»

«No, affatto!», esclamò la donna con veemenza, come se dovesse discolparsi da qualcosa. «Aveva un doppione delle chiavi, gliel’ha poc’anzi detto mio marito: per noi era come una figlia, ci fidavamo ciecamente di lei.»

Del Monaco appuntò qualcosa e riprese: «Mi sembra che qui vendiate piante, che c’entra il laghetto?»

«Sì, commerciamo in piante, alberi da frutto e attrezzature per il giardinaggio e la pesca, ma abbiamo pure un laghetto di modeste dimensioni adibito alla pesca sportiva: si tratta di un circolo privato. I prezzi sono volutamente poco abbordabili perché ci tengo troppo, tanto al laghetto quanto al giardino circostante e voglio che sia frequentato solo da gente a modo, non dai pulciari. Proprio domani, prima domenica di settembre, avremmo dovuto inaugurare la nuova stagione, per questo fremevamo, perché tutto fosse in ordine: laghetto in primis.»

«Perfetto», disse ancora una volta. Girò pagina e annuì coinvolgendo in una smorfia labbra, fronte e mezza faccia. «Chi ha trovato il corpo?»

La donna tornò a fiatare. «Sono stata io», scosse vigorosa la testa, gli occhi erano infossati e rossi. «Eravamo a casa che guardavamo la TV, saranno state sì e no le 17:00, quando mi telefona la madre di Lidia preoccupatissima perché non rispondeva né a casa, né al cellulare. Così mi sono agitata pure io e le ho detto che non la vedevo dalla tarda mattinata e sarei andata subito a controllare che al vivaio fosse tutto a posto. Non feci in tempo a riagganciare che ci eravamo già precipitati in auto e, arrivati al cancello, il cuore mi scattò in gola.»

«Come mai?», domandò, ben fiutando il motivo.

«Il cancello era aperto. Segno ch’era successo qualcosa di grave, pensai subito a una rapina. Invece… Quando vidi che in negozio non c’era e nulla mancava, mi sono precipitata al laghetto e l’ho trovata che affiorava sulla superficie. Ho urlato come non credevo fosse possibile urlare e mio marito è corso subito. Vi abbiamo chiamati in quello stesso istante, ma non ho avuto il coraggio di telefonare alla madre, so che ci è andato un vostro agente… Dove troverò il coraggio di guardarla negli occhi!?!», scoppiò ancora in pianto e prese a tirarsi pugni sulla testa con entrambe le mani. «Mia! Tutta colpa mia! Mia!», il marito se la strinse al petto circondandola con le braccia nel tentativo di soffocarne la disperazione ed ella reagì spiazzando i presenti: le labbra si contorsero in una smorfia di desiderio, si sollevò sulle punte e tentò di baciarlo aggressivamente.

Il commissario si zittì in attesa che le acque si fossero calmate e che l’uomo avesse smaltito l’imbarazzo.

Contemporaneamente a quella scena si udì il fragore scoppiettante di un motociclettone in fase di decelerazione. Del Monaco si voltò verso la strada e riconobbe l’uomo col quale aveva rischiato di scontrarsi poco prima. Quella marmitta e quel casco cromaticamente atipico erano inconfondibili. «Per poco non ci infrociavo con quel tizio», gli uscì tizio, ma pensò di nuovo a quel salume, di mulo.

«Questa sarà la quarta volta che fa avanti e indietro. Arriva sparato, rallenta, all’altezza del cancello quasi si ferma, butta un occhio dentro e riaffonda sul gas», aggiunse l’ispettore Mariani. Poi scrollò le spalle. «Sarà uno dei soliti svitati attirati dai lampeggianti.»

«Sarà… Comunque, manda qualcuno fuori con la paletta. Come ripassa, gli pigliamo i dati.»
Nel frattempo, lo sguardo del commissario si posò su una telecamera rivestita d’alluminio che imperava dall’alto di un lampioncino.

«Quando l’avete vista l’ultima volta?»

«Uscendo per andare in ospedale da mia mamma. Mio marito ha dato due colpi di clacson e lei ci ha salutato sventolando un braccio. Che tragedia! Maledetta passerella!», la donna non si dava pace. Si scagliò contro il consorte inerme: «Quante volte t’ho detto che non dovevamo pavimentarla! Bagnata, è come una trappola sul ghiaccio!»

L’uomo manifestò con la mimica facciale un reale smarrimento. Rivoltò le mani mezze aperte come quelle d’un mendicante inorridito dall’indifferenza della gente. «Ma… Veramente…», tentennò con tono abbacchiato, quasi timoroso. «Sei stata tu che…», gli occhi dell’uomo, adesso, si esibivano acquosi e tremuli, come quelli d’un bambino mortificato in pubblico. 

«E tu dovevi impedirmelo!», la moglie lo redarguì con occhi sbarrati.

Il commissario stette in silenzio per un po’. Non era certo uno psicologo, ma ne aveva viste così tante che l’idea che la donna arrancasse nella gestione della rabbia, gli sovvenne genuinamente. Si mosse di lato e il naso gli si ficcò in una nuvola d’acqua di colonia, vagamente muschiata, che pareva avvolgere il Ciampoli. «Non statevene qua in piedi, saranno ore lunghe. Quelle pietre portano al laghetto?», puntò lo sguardo all’uomo, che prontamente annuì con un cenno del capo. «Per ora è tutto», e li salutò con uno dei suoi sorrisi a tema, la bocca che s’impennava da una parte e i denti celati dietro le labbra carnose. Tema: Il congedo.

«Commissario», l’uomo gli si avvicinò timidamente. «Perdoni mia moglie, è solo sconvolta, ma ha un cuore d’oro», sentì il bisogno di aggiungere, a margine della scena pietosa che s’era appena consumata.

«Qual è il suo nome di battesimo?»

«Alberto.»

Gli mise una mano sulla spalla in segno di vicinanza. «Alberto… Io non ho nulla da perdonare a sua moglie. Se sta bene a lei, starà bene a chiunque», e si licenziò con un sorriso spento.


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