MORTE DI UNA COMMESSA


Anni or sono andai a trovare un mio vecchio insegnante delle scuole superiori.
Era un quarantenne alto, sportivo, che portava una barba color tabacco che gli adornava il volto in modo arruffato, dando l'impressione d'essere un tutt'uno col groviglio di capelli che gli copriva la testa. Ma soprattutto era un matematico e abile programmatore: un fuoriclasse in ambo gli ambiti. Eccentrico, sarcastico e spesso al centro di accese diatribe che non risparmiavano il corpo docente. Per me era il numero uno: ho imparato più da lui che da qualsiasi altro; ed ero sempre dalla sua parte, anche quando questo significava remare contro la maggioranza, studenti o insegnanti che fossero.
Diventammo amici, tant'è che, a conclusione degli studi, mi invitò a casa sua per mostrarmi quella che aveva ribattezzato la stanza sacra, ovvero lo studio ove lavorava ai suoi progetti e nel quale trascorreva il tempo migliore.
Al centro della grossa camera, v'erano scrivania e computer. Tre delle quattro pareti che giravano attorno erano tappezzate di libri fino al soffitto: appese all'unico muro non adibito a libreria stavano due enormi lavagne cancellabili a secco.
Mi rimase impressa una risposta che ebbe a darmi, a seguito di un mio evidentemente ingenuo quesito: «Professore...», ho continuato a chiamarlo professore anche negli anni a venire, nonostante il rapporto amicale che s'era instaurato e le tante cene consumate assieme. «Ma perché ha due lavagne?», gli domandai.
E lui mi rispose senza pensarci, o forse pensandoci per un lasso di tempo dell'ordine del femtosecondo. «In qualche modo devo pur sfogarmi.»
Come conseguenza di quell'uscita che giudicai insondabile, forse per pudore, non abbozzai congetture e rivolgemmo l'attenzione al computer: mi mostrò una routine che stava ottimizzando, in linguaggio Assembly. 

A questo punto vi starete di certo domandando del perché di questa storiella. No?
Il fatto è che sono un sentimentale. La prendo alla larga un po' per nostalgia, un po' perché è funzionale al prosieguo di queste righe.
Ho cominciato dicendo di essermi mosso per raggiungere il mio vecchio insegnante. C'eravamo dati appuntamento in biblioteca per consultare un libro sulla programmazione avanzata in linguaggio Delphi: Delphi Developer's Handbook di Marco Cantù e company.
A un certo punto, di sottecchi, notai che il bibliotecario si avvicinava con una certa titubanza nell'incedere. Conosceva me e soprattutto conosceva il professore, o meglio, credevo che lo conoscesse, dal momento che li avevo veduti parlottare decine di volte.
Il bibliotecario di nome faceva Albino ed era un uomo canuto, piccolo di statura e con il panciotto di fustagno stirato sopra lo stomaco prominente. Aveva un volto simpatico. Ho detto simpatico perché erano anni che lo vedevo gironzolare e, ogni qualvolta incappavo nella sua figura, lo sorprendevo a sorridere a questo o quello.
«Mi scusi, professore», Albino calamitò su di sé l'attenzione, facendo voltare il professore. «L'ha letto l'ultimo libro di X?», X era un atleta, un pluridecorato sciatore italiano (oggi sessantenne), famoso pure per le imprese da playboy puntualmente spiattellate dalle più blasonate testate scandalistiche.
Il professore indossò la faccia più schifata del suo arsenale e mi fece: «A me?! Viene a fare queste domande proprio a me, che per tentare il sonno leggo trattati di meccanica relativistica e metrica di Minkowski? Che seccatura!», quando era infastidito terminava la frase con l'interiezione: che seccatura! Allorquando, invece, qualcosa lo sbalordiva, le ultime tre sillabe fiatate pompavano: cap-pe-ri!
Effettivamente, quella formulata dall'improvvido bibliotecario era un domanda cogliona. Non per la qualità del libro sulla quale, non avendolo letto, non avrei potuto esprimermi. Ma per il soggetto al quale la domanda era indirizzata: nessun'anima viva a me nota aveva udito uscire dalla bocca del professore frasi che non fossero intimamente legate alla scienza, alla tecnica o alla pizza.
Eh, già, quella domanda meritava una risposta all'altezza del registro semantico al quale l'incauto interlocutore era ricorso.
Il professore fissò Albino, sbatté le palpebre e fiatò con leggiadra consapevolezza: «È proprio vero, al giorno d'oggi scrivono cani e, soprattutto, porci.»
Avrei voluto descrivervi l'espressione stampata, con la tecnica del puntinismo, sulla faccia del bibliotecario Albino, ma ero impegnato a gestire, tossendo, la saliva che m'era finita di traverso.

Ed eccoci, finalmente, a noi. Adesso che ho portato il forno a temperatura, posso approcciare con serenità il succo del discorso ovvero il perno di questo post: ho scritto anch'io un libro.
Un libro ha senso se v'è qualcuno che lo legga. Ho lavorato a questo romanzo gli ultimi tre anni. Mi piacerebbe davvero tanto se questo lavoro di piacere e fatica (che avevo sottovalutato) incontrasse i vostri gusti, spettinandovi i pensieri anche solo per un po'.
Starà a voi giudicare se io scriva come un cane, un suino, un po' dell'uno e dell'altro, o come uno che abbia qualcosa di stimolante da dire, che sappia come dirlo e che meriti d'essere ascoltato.
Per questo, ringrazio fin da ora chiunque volesse leggermi.

Innanzitutto, ve lo presento: MORTE DI UNA COMMESSA.
È un romanzo giallo striato di nero, che non risparmia le emozioni, l'arte, gli intrighi e le passioni.
La trama ve la illustrerò tra poco. Prima, però, ho voglia di farvi conoscere l'investigatore che ho immaginato e disegnato con la penna e che, per me, è diventato fin troppo reale. 
La narrativa ci ha regalato personaggi memorabili che affondano le radici nella terra in cui si muovono, o che respirandola la sentono ormai come propria. Cito il Duca Lamberti di Scerbanenco a Milano, il commissario Santamaria di Fruttero & Lucentini che s'aggirava nel Torinese, il Salvo Montalbano di Camilleri nell'immaginaria Vigata e Rocco Schiavone di Antonio Manzini tra Roma e Aosta. 
Volevo che anche Latina e l'Agro Pontino avessero il loro investigatore. Un investigatore diverso, non scontato. A tratti eccentrico, tenebroso: efficace. Uno con una scala di valori tutta sua. Un peccatore, più che un santo. Ma leale, sempre.
Il commissario Massimo Del Monaco.


Ecco uno stralcio tratto dal capitolo 2: Il commissario Massimo Del Monaco indossava un completo leggero color sabbia sopra una camicia bianca col colletto sbottonato, senza cravatta e con la Beretta infilata nella fondina sotto l’ascella. Gli piaceva l’eleganza non effimera: funzionale. Così vestiva abiti su misura, onde evitare il classico rigonfiamento sotto il braccio sinistro, tipico degli indumenti preconfezionati. Amava i cappelli, e indossarne: quel giorno era il turno di un berretto patchwork di lino irlandese.
D’un tratto si sfilò i Rayban Aviator, si cacciò le mani nelle tasche e dall’alto del suo quasi metro e novanta prese a guardarsi attorno, inarcando un occhio e assottigliando l’altro: era così che squadrava il mondo e chi lo popolava. E questo esigeva silenzio.  

Nei prossimi post, ho intenzione di agevolarvi la lettura di un paio di capitoli. Ma ora focalizziamoci sulla trama e, qualora foste interessati a qualsiasi aspetto, sono qui per rispondervi.

Il romanzo è un'opera di fantasia. Trame, sottotrame e personaggi sono frutto della mia immaginazione. Tuttavia, la vicenda prende il la da un fatto realmente accaduto negli Stati Uniti d'America oltre sessant'anni fa.
Siamo a New York ed è il 1958. A causa di un mozzicone di sigaretta, al MoMA, il più famoso museo d'arte moderna al mondo, divampa un incendio che degenererà in tragedia, con morti, feriti e danni ingenti. Le fiamme divorano pure due Ninfee di Monet.
Una delle due tele svanirà nel nulla, riemergendo nell'Agro Pontino dei giorni nostri e intrecciandosi al destino di una giovane donna di nome Lidia.
Lidia è bella, elegante e indipendente. Ma all'alba dei festeggiamenti per il suo ventisettesimo compleanno, muore. Viene trovata senza vita in un laghetto privato. Annegata, lei che dell'acqua aveva un terrore atavico.
Un tragico incidente? È quello che si pensa, ma quando il corpo di un pregiudicato, con una foto della ragazza infilata tra le natiche, viene rinvenuto nudo nello stesso luogo, la faccenda assume i contorni di un enigma oscuro e inquietante.
Il commissario Massimo Del Monaco della Questura di Latina è incaricato delle indagini. È un uomo schivo, eccentrico, che tempera le matite col pugnale, beve Wild Turkey e organizza giochi a premio il cui vincitore è l'assassino. Un'indagine che lo condurrà in un labirinto di bugie e segreti, dove la menzogna regna sovrana e l'equilibrio è precario. Gli ingredienti? Ci sono tutti: un Monet incenerito, un Warhol milionario e personaggi enigmatici dai nomi altisonanti quali il Loquace, il Muto, il Porco e il Gigante.

Ma qual è il legame tra Lidia e questo intrigo di arte e delitti? Come si inserisce la sua vita specchiata in questa torbida vicenda?

Un'esperienza di lettura talora cruda, che indurrà a riflettere sulla natura umana e sui lati oscuri che si celano dietro ogni facciata. Col Circeo piantato sullo sfondo e la magia del Fogliano a rivelare l'ipotesi del colore, a un mondo che sembra conoscere il solo nero.

I numeri del romanzo: 333 pagine - 29 capitoli - 78194 parole - 484728 caratteri



Disponibile su Amazon, sia in formato elettronico che cartaceo.

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