Il mio eucalyptus

 

Il mio eucalyptus, e il mio primo batticuore

Fino ai miei undici anni avevo conosciuto un certo numero di stati d’animo e sentimenti: la gioia, la tristezza, la paura, il dolore per la perdita del nonno, la delusione e pure la rabbia.
Ma ce n’era uno che non solo non conoscevo, ma ignoravo del tutto: il sentimento dell’amore, che rapportato all’età descriverei come il primo batticuore.
Prima di quel momento, le ragazzine mi stavano persino antipatiche. Le vedevo come delle rompiscatole, fastidiose e guastafeste: per lo più un intralcio. Quando giocavo con gli amichetti, le tenevamo a debita distanza. Le femmine dovevano stare da una parte e i maschi dall’altra.
Allorché qualche parente in visita mi domandava: «Massimino, ce l’hai fidanzatina?»
Io rispondevo stizzito, come se m’avessero insultato. «Ma che sei matto?!»
A parte il fatto che non vedevo la convenienza di averne una, ma poi mi pareva come un voler autoinfliggersi una punizione.
Tutto questo fino al mio approdo alla scuole medie.
Fu in quell’anno che cominciai a far caso al profumo delle cose, a inquadrare la vita che solo da pochi anni avevo preso ad abitare.
Ero un ragazzino, ma l’occhio iniziava a guardare con un piglio più responsabile. Avevo compreso che l’andare a scuola era il mestiere dei piccoli e che richiedeva sacrificio, non come alle scuole elementari dove l’atto di imparare lo confondevo con il gioco e mai avevo percepito l’ansia da interrogazione.
Quel salto scolastico fu il primo evento di transizione di cui mi resi davvero conto, e fu proprio allora che conobbi T.
Non mi va di svelare il nome per esteso, nonostante i tanti anni trascorsi. Nella mia classe c’erano tre compagne la cui iniziale del nome cominciava per T, e questo agevola la mia intenzione di non denudarmi integralmente, e riservarmi questa piccola cosa.
Era tutto nuovo. Ero passato dall’avere un unico maestro a tanti professori, uno per materia. Da una cartella leggera con due quaderni, libro di lettura e sussidiario, a uno zaino pesante che mi calcava le spalle e incurvava la schiena.
T. sedeva al banco immediatamente davanti al mio. Mi aveva colpito la sua vocina, così gentile, suadente. Non l’avevo mai sentita pronunciare una parolaccia o una parola fuori posto. Quando la sua compagna di banco, ben più estroversa di lei, si sbellicava rumorosamente prendendo in giro qualcuno per come vestiva, per come era pettinato o per com’era fatto fisicamente, lei non rideva mai, e mai la sorpresi darle manforte. 
Questo non vuol dire affatto che non ridesse o che non fosse una ragazzina di spirito, anzi, una volta, di sua iniziativa, mi raccontò pure una barzelletta niente male! Diciamo che rideva quando era motivo di divertimento per tutti e non a scapito di chi ne sarebbe uscito deriso.
Era alta per i suoi undici anni, ma questa era una circostanza che consideravo normale. La mia sorellina, ch’era più grande di me, m’aveva già spiegato che le femminucce sviluppavano prima dei maschietti. Io, invece, ero piccolino, se agganciavo il metro e mezzo era grasso che colava. Il mio sviluppo sarebbe arrivato più tardi, in un’unica soluzione, durante l’estate dei miei 14 anni, quando mi ritrovai con scarpe numero quarantacinque ai piedi e una statura che superava il metro e ottanta.
T. la ricordo sempre in tuta. Avrà indossato senza meno anche altri capi, ma io me la ricordo solo così. Aveva capelli lunghi e castani e dello stesso colore erano gli occhi. Era magrolina, con la carnagione olivastra e il nasino giusto un poco pronunciato, ma che sul suo visetto stava benissimo, sembrava impreziosirlo. Per me era la bambina più graziosa di quel mondo che ancora non sapevo quanto fosse grande.
Tutto ciò era memorabile, non l’avevo mai pensato prima. Era la prima volta che guardavo una ragazzina con quegli occhi. Mi piaceva, ed era questa la novità.
Mancava un giorno all’inizio delle feste Natalizie. Tornato da scuola chiesi a mia mamma di poter andare a messa con lei. La chiesa era quella di quartiere, ci si andava a piedi e mia mamma la frequentava tutte le sere. Le dissi che al ritorno ci saremmo dovuti fermare in cartoleria, perché mi occorreva un quaderno nuovo di italiano. In realtà, non era una vera cartoleria, ma un tabacchino che, ficcato tra la vetrina delle pipe e quella degli articoli da regalo, aveva uno scaffale zeppo di quaderni, album da disegno, matite, penne e ogni sorta di colori.
Quella sera comprai un quadernino a righe, pennarelli a spirito, colla e polvere di brillantini in tre tinte: oro, argento e rosso scintillante.
Mia mamma, appena appena perplessa, mi domandò a cosa servissero quei brillantini. Ma io cominciavo a farmi furbo, avevo scoperto che dicendole: «Mi servono per la scuola, l’ha chiesto la professoressa», mi sarei risparmiato beghe, commenti e ulteriori inquisizioni. Difatti, pagò e tornammo a casa.
    Chissà cosa m’era preso, ma fatto sta che ogni sera, prima di mettermi a letto, compilavo una pagina di quel quaderno-diario, che s’andava rimpinzando di “Ti amo, T.”, cuoricini e cuoricioni gonfi di brillantini e scritte ovunque.
Non ero avveduto, mancavo d’esperienza circa quella locuzione, circa quel “ti amo”. Ma l’avevo udita così tante volte in televisione e in contesti simili a quelli che stavo vivendo che mi persuasi che fosse un oggetto che adesso riguardasse anche me.
Il cuore mi batteva come quando avevo paura, ma l’origine era tutt’altra.
Il mio quartiere, quando ero bambino, era immerso nel verde e gremito di alberi di eucalyptus. Arbusti ch’erano stati piantati a seguito della bonifica delle Paludi Pontine degli anni ‘30 del Novecento; negli intenti, avrebbero dovuto mantenere le terre asciutte e allontanare le zanzare. Ce n’era uno più grosso degli altri, posizionato al margine del campetto che usavamo per giocare a pallone. Lo chiamavo il mio eucalyptus e sulla corteccia avevo inciso due iniziali: credo non serva dirvi quali.
Avevo principiato a sognare, fantasticare.
Immaginavo un mondo in cui io e T. ci tenevamo per mano e poi sedevamo sull’erba, con le spalle appiccicate al fusto del mio eucalyptus e mangiavamo patatine fritte. Io tenevo il sacchetto e, a turno, ci infilavamo la manina dentro per pescarle e le patatine non finivano mai.
Finalmente sapevo cos’era l’amore: mangiare patatine ai piedi di un albero, assieme a T.

Di quella mia prima cotta, lei non ha mai saputo niente.
Non gliel'ho mai detto.
Era una cosa tutta mia, che doveva rimanere mia.
Dopo le medie non l’ho più vista.
Ieri l’ho cercata. Su un social.
L’ho trovata.
Il naso è un po’ diverso. Ma è lei, anche se sono passati oltre tre decenni.
In foto non vedo una quarantenne, ma la bambina di undici anni che mi ha fatto capire che il cuore accelera pure quando sei felice, e che non importa di quante ore sia fatto un giorno, se pensi sempre alla stessa cosa.
Non le chiederò l’amicizia.
Voglio regalare alla purezza di quel batticuore l’immortalità, e ricordarlo come si ricordano le prime volte.

Commenti

  1. È un racconto veramente bello che speravo finisse com'è finito. Con te che la cerchi ora da adulta e però continui a rivedere la lei bambina, senza commenti sul suo aspetto di ora. Mi hai regalato un bellissimo racconto ed un grande sorriso perché mi hai ricordato che in qualche cassetto del mio comodino ho anche io un quaderno pieno di vecchi nomi e cuoricini glitterati. Che tenerezza <3

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    1. Innazitutto, ti ringrazio. Sono contento che questo mio racconto ti sia piaciuto.
      Penso che ci siano cose che nascano per essere protette e non "consumate". Se io avessi scelto di forzare il destino con l'intraprendenza, avrei, in un baleno, smorzato la magia che, in me, il ricordo di quella bambina ancora suscita.

      Dovremmo tutti conservare lo "sguardo del bambino", a qualsiasi età: sono certo che ne verrebbe fuori un mondo migliore; un mondo più pulito.

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  2. È un racconto così genuino, così perbene, scritto con quel tatto che oggi è raro da trovare. Ho letto tuoi componimenti anche molto forti. Una penna che sembra sapersi adattare con disinvoltura alle più diverse sfaccettature umane, qualsiasi esse siano.

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    1. Tocco diversi argomenti perché sono toccato da diverse emozioni. Ogni stato d'animo richiede d'essere approcciato in un modo a sé. Ognuno di noi è tante cose, non c'è da scandalizzarsi per questo. Quando scrivo ho bisogno di percepirmi libero, nudo. Per me la scrittura ha valenza catartica, "terapeutica"; oltre ad essere un piacere, che alle volte provoca dolore.

      Ti ringrazio per avermi letto, serena sera.

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  3. Il primo batticuore, in un certo qual modo, assomiglia alla prima pappa solida, a cui si dà libero corso quando si inaugurano i dentini nuovi di zecca.
    È un frangente particolarissimo e sotto certi aspetti corredato di tenerezza, perchè si è lungi dal pensare che ad emancipare una bocca che fino a poco prima era sdentata, non ci sia ancora niente di definitivo e la soddisfazione del primo morso e di un sapore proiettato già ai gusti della tavola, ci fa sentire incredibilmente grandi.
    È stato un po' quello che ho provato leggendo il (T)uo racconto, (A)micheTTo mio: sembra di sentire sfrigolare per davvero quel pacchetto di patatine in cui le mani, a turno, si tuffano a pescare, finanche ci si sente le dita unte da doversele succhiare.
    E quella cotta siglata da una T. che censura ogni altra lettera dell'alfabeto la possa far assomigliare ad un nome, diventa la sigla del cartone animato preferito, la stessa che canticchierai anche da adulto per non averla mai saputa dimenticare.
    Un (A)bbraccio da (L)ala

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    1. Mia (C)ara (A)micheTTa (L)ala,

      sai che non la ricordo la mia prima pappa solida? Per qualche oscuro motivo, le reminescenze dell'infanzia prendono il la in concomitanza al mio quinto compleanno. Prima è come se non fossi mai esistito, ed è una cosa che mi procura fastidio.

      Smetto di divagare e vengo al punto.
      Quando, da ragazzino, provai per la prima volta le emozioni che ho descritto, mi sentivo come catapultato in un cartone animato. Quelli che trasmettevano una volta. Oggi so che è diverso, i cartoni sono diversi, i ragazzini sono diversi, perché diversi sono i passatempi.
      Le emozioni erano meravigliose perché il sentimento era fine a se stesso, non contemplava null'altro, la felicità esplodeva e si completava nel provarlo. Tutto così enormemente diverso dall'amore adulto...
      Mi piace trattenere ciò che sono stato.

      (T)i (A)bbraccio forte forte.

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