Sincronicità

 



A ventun anni facevo lo studente, mangiavo pizza cinque giorni su sette e vivevo in un buco da quattrocentoottantaquattromila lire al mese; nella zona est della città.

    Ricordate la réclame delle caramelle Polo? Si chiudeva con una voce maschile, imperturbabile, che declamava un artico editto: Polo, il buco con la menta intorno.

    Ecco, il mio buco era simile, solo che intorno, invece della menta, c’erano palazzi abitati da pupazzi, che non vedevo mai. Sapevo ch’erano gremiti di gente, lo testimoniavano pure le antenne che, a bizzeffe, spuntavano fitte fitte sopra i tetti. Ma per me erano costruzioni fantasma. Tutti conoscevano tutti, ma io non conoscevo nessuno, se escludiamo i malcapitati che fluttuavano attorno (e dentro) al mio stesso residence. Residenza in cui vissi due anni e, a parte qualche piacevole fuoriprogramma, il bilancio fu decisamente negativo.

    Vi racconto solo com’è che me ne andai, di punto in bianco.

    Quella che presi in affitto, o meglio, quella che mio padre prese per me, era una stanza singola. La prima del primo piano: la rampa di scale sbucava esattamente al centro del corridoio. Venti camere, dieci a destra e dieci a sinistra: la mia, era la prima a destra. Varcata la soglia, immediatamente dopo l’ingresso, a sinistra, c’era il bagno. Grande. Nella doccia ci si potevano fare pure i balletti, e in coppia. Ma io ero da solo, e se anche non lo fossi stato, avrei dovuto imparare a farci qualcos’altro, perché il ballo non m’era finito nelle vene.

    Oltre la stanza da bagno, stavolta sulla parete di destra, v’era un lungo ripiano di truciolato piantato perpendicolarmente al muro, ad altezza uomo. Fungeva da libreria, ed era zeppa di miei libri costosi; quest’ultimo è un dettaglio non trascurabile, che motiverà, assieme a un altro fatto, la mia fuga.

    L’altro fatto ve lo racconto adesso, ma non abbiate fretta.

    I fine settimana li passavo fuori. Lasciavo il mio alloggio il venerdì pomeriggio per farvi ritorno il lunedì sera, dopo le lezioni. E lo sapevano tutti. Soprattutto la receptionist, e il direttore, che se non fosse stato per l’episodio che vado a raccontare, avrei definito squisito e timorato di Dio. Sì, avete capito bene, perché in quella struttura si pregava, pure.

    Il direttore era un uomo mite, dal volto rassicurante e i capelli grigi, sparati dappertutto, come se si fosse sempre appena svegliato. Ma cosa ben più importante: era un uomo propenso alla preghiera comunitaria. Aveva così adibito, al piano terra, una sala per il raccoglimento, dove ci si riuniva, settimanalmente, per recitare il Rosario. Gli aveva dato perfino un nome: il Circolo della preghiera.

   Sul fondo della sala per il raccoglimento c’erano file di seggiole impilate lungo la parete. Erano un mobilio che non vedevo da quando i ghiaccioli alla menta costavano 150 lire: sedie alla Campanino, dalle linee leggiadre e dal peso leggero, ma che una volta abbandonatevi sopra le terga, davano un inopinato senso di stabilità. A mano a mano che i partecipanti arrivavano, recuperavano la propria sfilandola da una delle pile ancora in essere e si recavano a posizionarla accanto all’ultima già sistemata. Tassello dopo tassello, alla fine, ci si ritrovava ad aver formato un circolo umano: il Circolo della preghiera, per l’appunto.

    Si cominciava alle 20:30 del giovedì e, un’ora dopo, si potevano rompere le righe o, più letteralmente, si poteva disfare la circonferenza.

    Terminato il frangente solenne, si usciva allegramente facendo comunella a mucchietti, e si socializzava, a seconda delle simpatie. Certe volte, si finiva alticci da qualche parte. Io ero uno di quelli. Ma non l’ho mai percepita come una macchia sulla coscienza, sarebbe stato un po’ come un rinnegare me stesso, visto che, di tanto in tanto, mi capita pure oggi.

    Ma torniamo a noi.

    Dicevo… I fine settimana li passavo fuori da lì, poco lontano, per godermi la famiglia. Sì, perché all’epoca ancora ce l’avevo, ed era tutta intera.

    Quel venerdì, saranno state sì e no le 15:30, zaino in spalla, mi cacciai fuori dal mio buco. Chiusi la porta a tripla mandata e scesi le scale come un inseguito, precipitandomi in strada e trottando alla volta della metropolitana: la mia fermata di scalo e partenza era Subaugusta, al confine dei quartieri Don Bosco e Appio Claudio.

    Ero euforico al venerdì, più che al sabato, proprio perché il sabato non l’avevo ancora mozzicato e ordunque lo pregustavo, ci ricamavo sopra. Sono sempre stato un fantasioso, un sognatore. Durante il fine settimana possono accadere un mucchio di cose: pizzate con gli amici, dopo cena al pub, chiacchiere fino a notte fonda, l’euforia d’una bottiglia di troppo... Un incontro inaspettato.

    Non accadde nulla di tutto questo. Avevo troppo da studiare. I sogni li avevo relegati alla notte, e il dovere alle ore di luce.

    In ogni modo, com’è e come non è, trascorsi comunque il mio bel weekend coccolato e riverito. Il lunedì mattina partii direttamente da casa dei miei per andare all'università, come di consueto. Nemmeno settanta chilometri, ma tra il treno fisiologicamente in ritardo, la coincidenza con la metropolitana e il pezzo a piedi, due ore ci stavano tutte.

    Ed è proprio quando meno te l’aspetti che casca l’asino. E non casca mai solo, quella mattina, difatti, ne esperimentai pure un altro di proverbio: il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi.

    Mi spiego meglio. Arrivato all’università, scopro che quel dì non si sarebbero svolte le lezioni, a causa di un non meglio precisato sciopero, che ignoravo completamente. Anche perché, se l’avessi fiutato, avrei allungato il soggiorno in famiglia di un trecentosessantacinquesimo di anno, e me ne sarei rimasto beatamente a ronfare senza l’assillo della sveglia.

    Così, guardai l’orologio: le nove. Non sapendo che fare, decisi di tornare in residenza e rintanarmi nel mio buco, magari fino a mezzogiorno, quando ne sarei uscito per procurarmi un bel pezzone di pizza bruciacchiata da Gino er Fornaretto, che potevo raggiungere in centouno passi dei miei. La precisione della misura poc’anzi sbandierata era figlia d'un rituale che non sapevo smettere. Un vizio. Ero aduso a misurare in passi ciascuno dei luoghi non di mero passaggio ovvero che sarebbero rientrati nelle mie dinamiche a lungo termine: il riferimento era l’immobile in cui vivevo, nel punto esatto in cui terminava la proprietà privata e cominciava il marciapiede. Il giornalaio distava duecentoottantotto passi, il baretto cinquecentoventuno, il ristorante cinese trecentoquarantatre e la basilica di San Giovanni Bosco milleduecentoquattro passi.

    Esco dall’università e mi metto in marcia. C’è un lungo stradone in salita da percorrere, polveroso, e durante la stagione delle piogge costellato da fastidiose pozzanghere più simili a laghetti di natura vulcanica che a buche ripiene. Lo stradone incide su via Bernardino Alimena, ch’è la via di maggior peso, poiché è quella nella quale ci si imbatte una volta sbucati dal Grande Raccordo Anulare con la macchina. Ma io ero a piedi e, quindi, avrei fatto come facevano tutti, nonostante fosse una pratica irresponsabile: tirai dritto fino al cavalcavia e lo imboccai solo per pochi metri sfilando adeso al guardrail, che scavalcai in un punto ragionevole. A quel punto mi bastò di fare un balzo per atterrare su uno sterrato macchiato da un’erbetta umida, vellutata e rassicurante: la scorciatoia verso casa.

    In trenta minuti netti arrivai a destinazione. Varcai il cancello della residenza. Davanti avevo i sei scalini che davano sul portone di vetro e alluminio. Li saltai tre alla volta e in due falcate fui dentro. Di fronte a me, dietro una specie di gabbiotto, c’era la receptionist: bionda tinta, quarant’anni, seduta. Alla mia sinistra, la rampa di scale che dava alle camere: la prima di queste era la mia.

    Montai un sorriso e diedi fiato: «Buongiorno!», dissi mentre m’affrettavo al primo scalino.

    Con la coda dell’occhio intercettai la donna schizzare, tarantolata, dalla sedia. La sua voce arrivò alle mie spalle ed era concitata e incerta: urlava il mio nome, dilatandolo. Immaginate la scena: un nome di per sé lunghissimo, dodici lettere, dilatato impiega un’eternità a librarsi in aria: «Mas-si-mi-li-a-noooooo!!!» 

    Difatti ero già in cima alla scala. E comunque, non capivo cosa avesse da urlare. Non abbiamo mai avuto tutta questa confidenza.

    A vent’anni, quelli di quaranta, ci sembrano dei vecchi bacucchi. Poi, quando siamo noi a varcare la soglia psicologica dei quaranta, quelli di venti ci sembrano dei mocciosi senza spina dorsale. Infrequentabili come fossero degli appestati, promulgatori di idee immature per definizione: non classificabili per mancanza d’esperienza; e l’esperienza, si sa, genuina o millantata che sia, per certi quarantenni, è funzionale all’alibi per darsi un tono. Occasionalmente, mi capita di osservarli per la strada, certi ventenni di oggi, coi loro movimenti dinoccolati, la pelle sconfinatamente tatuata, i pezzi di metallo conficcati qua e là a scopo (forse) ornamentale, il linguaggio scevro da sfumature di registro... E così agitando le mani giunte mi domando: ma io ero così coglione all’età loro? Mah, una risposta me la sono finanche data, ma preferisco non sbottonarmi: la giudichereste viziata, e di parte.

    Fatto sta che infilai la chiave nella toppa, e diedi di polso. Ma qualcosa andò storto. M’aspettavo le rassicuranti tre mandate, e invece: nemmeno uno scatto. L’anta faceva gioco, la percepivo morbida, una lieve spinta con la spalla e sarebbe schizzata sui cardini. Ma la lasciai chiusa. Dovevo riflettere.

    Cazzo!, dissi lì per lì. Io sono un tipo apprensivo. Il cuore mi era già scattato in gola. Ma il barlume d’un appiglio mi fece tornare in sentimenti e ragionai. Il martedì passano le gentili signore delle pulizie, mi dissi. Coi loro carrelli pesanti, la varechina alla lavanda e gli strofinacci, e quando se ne vanno non chiudono mai a chiave... Ordunque, ero salvo. Mi portai una palma al petto e con l’altra mano brandii il pomello della porta. Mi piegai in avanti e mi ci appoggiai di peso: ero salvo, e tirai un imperituro respiro di sollievo: m’era venuto pure un po’ d’affanno.

    E invece, no! Cazzo!, mi dissi ancora. Era lunedì! Le donne delle pulizie sarebbero venute solo l’indomani!

    Inorridito, ruppi gli indugi. Entrai di corsa lasciando la porta aperta. Incurante del bagno piombai nell’unico ambiente abitabile. Vedo la mia scrivania, l’armadio e la porta finestra che apre sul balconcino, che a sua volta dà su un minuscolo boschetto. Finalmente la testa smette di ruotare e gli occhi si posano sul mio giaciglio, un lettino singolo attaccato alla parete condivisa con il bagno. Ed è proprio lì che stava l’inghippo: sul letto.

    Adesso ho capito perché quella strega in malafede aveva abbandonato il gabbiotto per corrermi dietro a tutta callàra.

    Ah, a proposito, nel mentre che io fissavo il letto, l’inseguitrice m’aveva raggiunto. «Questo ti volevo dire!», urlò affannata. «Ma sei arrivato come un treno! Se fossi tornato come sempre di pomeriggio non te ne saresti nemmeno accorto!»

    L’avevo udita forte e chiaro, ma non era proprio nei piani degnarla del mio sguardo. Le frasi che aveva appena pronunciato mi rimbombavano sgradevoli e spudoratamente ammonitrici, quasi che il problema fossi io: colpevole d’essere rientrato in anticipo a casa mia. Eh, già, perché io quel buco lo pagavo profumatamente, e fin quando pagavo, era il mio!

    La faccenda somigliava a un cliché cinematografico, ad una di quelle scene in cui la moglie torna a casa in anticipo e trova il marito a letto con la migliore amica. E la colpa è dell’ultima arrivata perché si era dimenticata di avvisare del rientro anticipato, con l’aggravante di avere interrotto il coito.

    Assurdo! Era il massimo del minimo!

    Sul mio letto disfatto c’era adagiata una fanciulla, di un’età ancora imprecisata, aspettavo di scorgerle il volto per farmene un’idea. Se ne stava a pancia sotto, mezza nuda, spaparanzata sulle mie lenzuola come una stella marina capovolta, ed erano sgualcite come un campo di battaglia: quando ne presi coscienza, le congetture circa l’identità della donzella passarono nettamente in secondo piano. Quella visione m’aveva fatto salire il sangue al cervello, non vedevo altro che quelle lenzuola aggrovigliate e umide e l’ombra indefinita d’un fantasma, col quale ella aveva (carnalmente) di certo combattuto. Sul mio letto! Cazzo! Anzi, no, pensai prima Che schifo!, e solo poi dissi Cazzo!. In formule: Che schifo!-virgola-cazzo!.

    Poc’anzi ho detto ch’era solo mez-za nuda. Sì, perché una canotta, indosso, l’aveva, ma le si era arrotolata ben al di sopra delle reni e l’intimo consisteva in un perizoma rosa, striminzito; non uno di quelli carini, magari di pizzo: era un cordoncino consunto, più simile a un filo allentato, infrattato nel sedere. Sono certo che, se pure ella se lo fosse sfilato, non se ne sarebbe accorto nessuno. Quel brandello di tessuto incrociato lo giudicai solo un impiccio, a metà tra la comodità d’una mosca sul naso e l’impaccio del nulla indosso, quando sai che tutti arrivano da dietro e tu dai loro le spalle.

    Tuttavia, degustibus non est disputandum.

    La receptionist, che di nome faceva Elsa, mi sfiorò un gomito e mi disse: «Adesso la sveglio io, le faccio preparare le sue cose e do l’ordine di rassettarti la stanza. Tu aspettami di sotto. Giusto due minuti e ti spiego tutto…», il tono era pacato e il volto pallido e scavato.

    Quella che m’aveva proposto era una soluzione valida per il tempo di pace. Ma io non ero calmo. Così, non seppi modulare il tono come si conviene in presenza di membra dormienti e ignude, e la mia voce tuonò: «Per-ché è sul mio letto?!»

    Elsa aveva preso a balbettare qualcosa di vago, farfugliava, immagino stesse temporeggiando per imbastire la migliore puttanata da propinarmi, ma non fu necessario, perché la ragazza si riscosse stiracchiandosi rumorosamente.

    Sollevò la testa dal cuscino sul quale era sprofondata, torse il collo all’indietro e mi guardò di traverso, dal basso verso l’alto, con le palpebre appiccicate e gli occhi assonnati che si muovevano stretti, per mettermi a fuoco.

    Il mio sguardo era protetto dalle lenti azzurrate dei miei RayBan, ma la piega sprezzante della bocca e la mascella tesa erano di per sé eloquenti.

    Tre persone, di cui una abbondantemente smutandata, all’interno d’un fazzoletto di sei metri quadri, fu l’incentivo che la fece schizzare in piedi, in due riprese.

    Sulla spalliera della sedia della mia scrivania c’era il pezzo di sotto di una tuta dell’Adidas, rossa con le strisce bianche.

    Gliela passai.

    Era imbarazzata, si vedeva: questo era quantomeno un buon segno, non dava l’impressione d’una strafottente. Ed ero ora in grado di attribuirle un’età anagrafica: tra i 22 e i 25 anni, in qualsiasi altra occasione ci avrei messo la mano sul fuoco, ma stavolta, la mano la passai: per quel giorno m’ero scottato già abbastanza.

    Parlava. Mentre saltellava su una gamba per infilare la tuta con l’altra, parlava. Velocemente, con tono accorato, agitando le mani. Poi, sollevò lo sguardo e mi fissò con occhi da cerbiatta, deliziosi e nocciola, umettati e smarriti: pareva davvero mortificata. Ma questo lo dedussi dall’inflessione della voce e dalla mimica, visto che i contenuti dell’arringa m’erano oscuri: la fanciulla era straniera, l’accento spagnolo, ed io non avevo capito un tubo.

    Ormai non aveva più senso rimanere lì. Decisi di scendere per farmi spiegare tutto o qualcosa che gli somigliasse e lasciare che la fanciulla senza nome radunasse le proprie cose. 

    Volli andare a intuito. Un colpevole c’era, questo era indubbio, ma mi convinsi che quella povera disgraziata c’entrasse in quell’intreccio tanto quanto c’entravo io.

    Avevo smaltito una buona razione di rabbia. I tratti del mio volto s’erano fatti distesi e le dissi di fare con calma. Non so quanto ella comprese del mio dire, purtuttavia mi sorrise.

    «Estefanìa», mi disse mentre già indietreggiavo per liberarla dalla mia presenza. Forse s’aspettava che le rivelassi anch’io il mio nome, o forse no. Non dissi nulla. Non ero corteggiato dall’umore giusto per fare amicizia. So solo che mi feci spuntare un sorrisetto agli angoli della bocca e m’avviai verso l’uscita.

    Avevo appena oltrepassato il ripiano dei libri allorché di sguincio registrai un’anomalia. Senza andare troppo per il sottile: la lunghezza dei miei volumi affiancati s’era ridotta di un abbondante terzo.

    Feci retromarcia, girai su me stesso e setacciai per bene. Sulla metà di quei libri ci avevo buttato sangue, sui restanti ce l’avrei versato. Ne conoscevo a menadito pure l’ordine, quello che veniva prima, quale dopo, il primo e l’ultimo. Il censimento fu immediato. Ne mancavano cinque: i due volumi di Algebra lineare e Geometria differenziale dell’Abeasis, Calcolo delle Probabilità e Statistica di Baldi, Problemi scelti di Analisi Matematica II di Acerbi e company, e il Martinelli-Salerno: Fondamenti di Elettrotecnica.

    Quella fu la goccia che innescò lo straripamento del Pecos. Ero gelosissimo dei miei libri, ed ero incazzato nero.

    «M’hanno rubato cinque libri, cazzo!», esclamai senza ritegno, con la giugulare che lievitava e pompava all’impazzata.

    «Ma sei sicuro?»,  ebbe il coraggio di controbattere.

    La cosa mi mandò ancor più in bestia.

    A quel punto eravamo in terra di nessuno. Non mi curai più né di lei né della spagnola. Schizzai fuori dalla stanza, mi scapicollai giù per le scale e mi diressi all’ufficio del direttore.

    Bum! Bum! Menai due volte il pugno a martello contro la porta.

    Nulla.

    Zero.

    Silenzio.

    Abbassai la maniglia e spalancai l’anta: il vuoto assoluto. Mi tirai dietro la porta senza accompagnarla e vagai per la struttura alla ricerca del brizzolato e mite timorato di Dio, che prima di quella mattina avrei definito finanche probo. Non c’è peggior rammarico di quello che si esperimenta quando la descrizione di un uomo che davi per assodata perde un aggettivo, che con stupefazione puoi rimpiazzare col suo contrario. E tutto calza a pennello! Ti ritrovi con la descrizione dello stesso uomo, ma aggiornata. Una volta ho sentito dire che il tempo cambi le persone. Io dico che le persone sono quelle che sono, ognuna avvolta da una nebbia tutta sua, più o meno rarefatta: il tempo non fa altro che diradarla, a poco a poco. Più il tempo passa, più la nebbia si dissolve, più ci vedi chiaro, più ti rendi conto di chi hai di fronte. Mi sovviene un adagio popolare che diceva sempre mia mamma quando rimanevo deluso dal tradimento adolescenziale di un amico: per dire di conoscere davvero qualcuno, devi averci mangiato assieme almeno sette sacchi di sale grosso.

    Lo avvistai dal fondo del corridoio. Era appena sbucato fuori dalla porta del bagno privato, l’unico cui ci si accedeva attraverso una chiave, che teneva sempre in tasca.

    Mi misi a correre come un forsennato perché era diretto nel senso opposto al mio.

    Lo raggiunsi al trotto. «Giovanni!», sbraitai mentre lo affiancavo. «Permetti una parola?» Quando ci eravamo conosciuti mi esortò con veemenza: Per favooore, per favore! Chiamami solo Gianni, e me lo disse spalancando le braccia in un gesto magnanimo, come quello di un padre che accoglie il figlio dopo una marachella. Sono Giovanni solo per nemici, multe e bollette, e io l’avevo accontentato, anche perché era una figura che, per ovvi motivi, mi sarebbe divenuta familiare.

    Non avevo nemici e nemmeno lui lo era, ma di certo non era nemmeno un amico. Ergo: non era più un Gianni per me: Giovanni andava benissimo, e presto nemmeno più quello.

    Ci fermammo intralciando il passaggio. «Ciao, Massimiliano, tutto a posto?», mi disse col volto a festa: ignaro di tutto o in malafede?

    Glissai i convenevoli. «La mia stanza è stata violata», cominciai subito serio. «Tutt’ora c’è una ragazza dentro, che ha dormito sul mio letto e solo il cielo sa cos’altro!»

    «Ah, scusami tanto…», ecco la malafede. «Una ragazza educatissima… Arrivata sabato sera dalla Spagna per l’Erasmus, studia lingue e letterature straniere e vuole imparare l’Italiano. Non abbiamo fatto in tempo a prepararle una camera perché tutte occupate e allora le abbiamo dato la tua, avremmo sistemato tutto per tempo, come semp…», d’improvviso si schiarì la voce. A scopo strumentale, ma ormai gli era scappato quel COME SEMPRE, e io l’avevo carpito, implacabile come una sentenza di condanna.

    Il nervoso mi faceva incespicare, troppe sillabe fremevano per schizzarmi dalla bocca e quindi s’accavallavano. «Primo!», tenni il conto col pollice, «Perché non mandarla in camera con Elisabetta o Delia? Entrambe hanno una camera doppia e ci vivono sole! Le avrebbero fatto compagnia e aiutata ad ambientarsi! E invece, no! Ve lo dico io perché le avete dato la mia… Perché loro due hanno di certo rifiutato, perché ficcarsi un’estranea dentro quando c’è quella di quel coglione di Massimiliano ch’è singola, vuota e col cesso planetario?», ce l’avevo con lui, ero adirato e purtuttavia parlavo al plurale per una forma di rispetto che m’appartiene, ma la faccenda la ritenevo assai grave.  «Secondo!», feci spuntare l'indice, il pollice era già ritto come un razzo. «Avreste dovuto telefonarmi, e chiedermelo. La camera è mia e me la fate pagare oro! Mio padre fa i salti mortali per mettere assieme le quattrocentoottantaquattro mila lire ogni dieci del mese! E sono tantissimi!», adesso mi fu spontaneo il tu: «Se mi avessi telefonato, che ne sai, magari ti avrei detto di sì. Ma così, no. Così è brutto. Non mi fido più. Chissà quante altre volte l’hai fatto e non me ne sono nemmeno accorto… Chissà quante mani nei miei cassetti, tra le mie cose, chissà quanti occhi tra le righe dei miei taccuini, tra i miei segreti…», ero così deluso che mi veniva da piangere.

    «Ma no, non prenderla così…», tentò di accomodare le cose puntando a una conclusione a tarallucci e vino.

    Lo zittii. «Mi hanno rubato cinque libri di testo.»

    «Ma quando? Come è possibile…»

    «Come è stato possibile dovresti dirmelo tu. Se la ragazza studia lingue, i testi scientifici non le servirebbero a nulla. Questo vuol dire una sola cosa, che altre persone hanno avuto accesso alla mia stanza, sono entrate, hanno guardato e rubato. Ci sono solo due persone qua dentro che seguono i miei stessi corsi e ai quali potrebbero far gola quei libri specifici. E sappiamo entrambi chi sono. Ed entrambi mangiano abitualmente con me, scherzano con me.»

    «Non ti preoccupare, fammi una lista…»

    «No. Non me ne frega più un cazzo. Non mi fido più di nessuno. Mi fidavo di te, credevo di essere protetto qua dentro, che le mie cose fossero al sicuro proprio perché ripetevi a chiunque che qui eravamo come una grande famiglia, e dormivamo con le porte aperte. Per la verità, io, la mia, l’ho sempre tenuta chiusa, ma non è servito proprio a nulla.»

    «A me dispiace questa cosa, è stato uno spiacevole disguido, ma non è la fine del mondo…», forse non sarà stata la fine del mondo, ma la fine di un contratto di affitto sì. Quando intacchi la fiducia, intacchi il rapporto. Non sarei riuscito a convivere con tutto questo e fare finta di nulla, tra ladri, mistificatori e finti amici.

    «Comincio a scontare i due mesi di cauzione già pagati», fui categorico. «Nel frattempo parlo coi miei e cerco un’altra sistemazione», quella fu la mia scelta: mi parve l’unica soluzione decente compatibile con la mia indole. Denunce e battaglie di carta non erano per me.

    Presi la mia indole e il mio volto accigliato e disilluso e me ne andai.

    Lui non disse nulla. Non disse mai più nulla, perché più non lo vidi. Nemmeno il giorno in cui liberai la stanza numero 11, la prima del corridoio di destra del primo piano e che per due anni era stata mia. Mia? Che credevo fosse mia, e che invece era qua-si mia. Mia nei giorni feriali. Per quel che ne sapevo, avrebbero potuto giocare sporco perfino tutti i fine settimana, tanto io non c’ero e ne sarei rimasto all’oscuro. Mi sentivo truffato. Anche solo da un punto di vista meramente economico avrei meritato un risarcimento. Quattrocentoottantaquattromila lire al mese corrispondono a poco più di sedicimila lire al giorno. Quindi, tra sabato e domenica, fanno trendaduemila lire, che io pagavo senza motivo perché probabilmente ne usufruiva qualcun altro. Che moltiplicate per le cinquantadue settimane dell’anno fanno qualcosa come unmilioneseicentosessantaquattromila lire. Che pagavo e non avrei dovuto pagare. Mi sentivo frodato. Ma ero giovane, e sapevo che se il buongiorno si fosse visto davvero dal mattino, la vita m’avrebbe potuto riservare anche di peggio.

    Chissà quante spagnole avevano dormito sul mio letto…

    A proposito di spagnole. Quella Estefanìa la rividi, vestita, sei mesi dopo. Fu lei a venirmi a cercare, e parlava, parlava, italiano stavolta.

    Ma questa è un’altra storia. Una storia che vi racconterò, perché se è vero che nulla accade per caso e che gli eventi, finanche nefasti, si succedono per un motivo che ci sfugge, anche tutto quello che m’era piombato addosso e che m’aveva insinuato l’amaro in bocca avrebbe dovuto necessariamente avere un senso. Avevo bisogno di crederlo.

    E quel giorno arrivò, e mi travolse, in un tiepido pomeriggio di primavera, quando inciampai letteralmente in Viola. Io la travolsi e lei mi folgorò. Sarebbe stato l'inizio del mio primo vero batticuore adulto. E non sarebbe mai accaduto se sei mesi prima non ci fosse stato quello sciopero, quel mio rientro in camera così inconsueto, quella truffa ai miei danni, e quella Estefanìa nuda sul mio letto...

Commenti

  1. Un racconto bellissimo.
    Ciao Massimiliano.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie, gentilissimo Gus... Mi fa davvero piacere questo mio ti sia gradito. In origine era assai più lungo: ho così preferito spezzarlo e ricavarne due racconti a sé stanti.

      Serena sera.

      Elimina
  2. (A)micheTTo mio (I)nsuperabile! La freschezza, la scorrevolezza e lo stile accattivante di questa (T)ua narrazione sono  tali che avrei voluto, di sotto, il seguito...
    È stato un po' come sprofondare nella scena  esilarante del film Poveri ma belli, in cui per fruire del letto era necessario rispettare il proprio turno.
    Di fatto, poi, la sincronicità è una faccenda seria, come quando scoperchi la cassa ad un orologio presumendo di scovarvi ciò che regola un meccanismo e ti accorgi che l'arcano è una serie di incastri e che le circostanze obbediscono alla medesima legge senza eccezione. Importante è saperne il motivo!
    (T)i (S)tringo forte forte...

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Eh, già... Ma qui il letto lo pagavo solo io! 😁
      Sì, la Sincronicità è una faccenda seria: certe volte ci si crede fermamente, certe altre è il bisogno ad alimentare la fede: perché ci sono fatti che ci sorprendono e non possono non avere un senso. A noi piacciono i (D)isegni.

      Il seguito lo leggerai e il titolo è questo: Tredici rose rosse per Viola.

      (T)I (A)bbraccio forte, (A)micheTTa mia.

      Elimina

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