Dino Buzzati: Lo strano viaggio di Domenico Molo (Il Sacrilegio)

Dino Buzzati


Inauguro oggi una nuova sezione del blog: LENTE sulla narrativa.
Farà da apripista ad una seconda, che si focalizzerà esclusivamente sul genere poliziesco, e i suoi dialetti.

L'opera narrativa che metterò sotto la lente (ovvero di cui parlerò minutamente, non tralasciando eventuali considerazioni personali) è un racconto di Dino Buzzati pubblicato nel 1938 col titolo de Lo strano viaggio di Domenico Molo. Uscì settimanalmente (tra il mese di Ottobre e Novembre) sul periodico OMNIBUS (fondato da Leo Longanesi, giusto un anno prima).
OMNIBUS ANNO I - N.34 (20 NOV 1937)
Successivamente, fu inserito in una raccolta di racconti tutt'ora in commercio (I sette messaggeri), col titolo de Il sacrilegio.

Da una ventina d'anni colleziono Premi Strega. Ed è così che ho cominciato a leggere seriamente Buzzati, quando mi arrivò a casa il volume vincitore dello Strega nel 1958: Sessanta racconti, di Dino Buzzati.

Dopo quella lettura, che per me fu folgorante, cominciai a interessarmi ad altri suoi lavori, e a comprarne. Scoprii allora che fu un autore prolifico, soprattutto nell'ambito della narrativa breve: forma letteraria nella quale pure Scerbanenco era maestro; anch'egli, come Buzzati, scomparso troppo presto.

Senza divagare troppo, diverse sono le trame che mi hanno affascinato, ma da qualche parte dovevo pur iniziare. Così, ho scelto il brano che più mi ha coinvolto emotivamente (finanche dopo aver voltato l'ultima pagina), e ne ho ricavato l'oggetto per quest'articolo.

Per di più, al di là del contenuto in sé, questo racconto si porta appresso un alone di mistero di tutto rispetto, visto che ha ispirato Federico Fellini per il suo capolavoro fantasma: il film MAI girato più famoso della storia del cinema italiano: Il viaggio di G. Mastorna[Puoi approfondire i retroscena relativi al Mastorna facendo click qui!] 



LENTE SULLA TRAMA


Lo strano viaggio di Domenico Molo (Il sacrilegio)

Il racconto comincia in un pomeriggio di primavera, all’interno di una chiesa, allorché il dodicenne Domenico, figlio di un ricco industriale, l’ingegner Molo, si appresta a raggiungere il confessionale per liberarsi dai peccati, in occasione della Prima Comunione che avrebbe ricevuto l’indomani.

Mentre attendeva il suo turno, prese a sfogliare il libro della messa che gli aveva regalato un parente: fu allora che si innestò il germe del suo tormento interiore. Sul libretto, a un certo punto, erano indicati tutti i possibili peccati che un giovinetto avrebbe potuto commettere. Niente di eccezionale, si disse. Ma quando gli occhi gli si posarono su un preciso capoverso, Domenico capì d’essere intrappolato, e trasalì: Sei superstizioso? Dai importanza o credi ai sogni?

Sapeva di non esserlo più di qualsiasi altro della sua età, ma anche lui aveva i suoi riti scaramantici che, fino a quel momento, considerava innocui.
Fatto sta che andò a confessarsi assalito dall’angoscia: confidò i soliti peccati, ma, per vergogna, non riuscì a confessare la colpa appena scoperta.

Tuttavia, ad assoluzione avvenuta, quando era ancora in chiesa, l’animo gli si incupì di sgomento, perché aveva taciuto un peccato per vergogna
Si persuase di non poter far ritorno a casa con la coscienza sporca: tornò da Don Paolo e confessò di essere superstizioso.

Il prete lo ammonì: «Guai a essere superstiziosi. È segno di ignoranza, perché equivale a credere in potenze occulte al di fuori di Dio. Lasciamola ai popoli selvaggi la superstizione.»
Spiegò poi al ragazzino i danni intrecciati a quel peccato e, per penitenza, gli diede da recitare alcune preghiere.

Domenico si sentì subito sollevato e rincasò lieto. Cenò con i suoi: il padre, i fratelli e un amico di famiglia; la mamma non l’aveva mai conosciuta, perché morta pochi giorni dopo la sua nascita.
Eppure, ben presto, l’umore del bimbo tornò a inabissarsi nello sconforto. Si rese conto di aver sbagliato entrambe le confessioni avute quel pomeriggio. Rimuginandoci sopra, si accorse della gravità commessa: aveva sì confessato la superstizione, ma non aveva detto il vero peccato, ovvero che nella prima confessione aveva scientemente taciuto, per vergogna, il peccato ignobile di essere superstizioso!

Pensò che Don Paolo l’avesse assolto credendo che fosse una mera dimenticanza e non che lui l’avesse taciuto di proposito! Fece sua, a malincuore, la congettura appena formulata e cominciò a sfogliare nuovamente il libro della messa all’affannosa ricerca di un appiglio che lo scagionasse o che quantomeno lenisse il senso di soffocamento che lo opprimeva. Ma quella che ottenne fu solo una sentenza senza appello: Chi per vergogna o per altro motivo non giusto tace colpevolmente un peccato mortale, non fa una buona confessione, ma profana il Sacramento e si fa reo di un grave sacrilegio.

La parola SACRILEGIO gli rimbombava nella testa come un martello pneumatico: l’aveva sempre ritenuta una parola “asettica”, un concetto così lontano dalla sua condotta di bambino da risultare intangibile e perfino inimmaginabile. Ma stava male. Solo lui e Dio sapevano di quel peccato ed era intenzionato a confessarlo l’indomani prima della Comunione.

Andò a dormire.

Alle prime luci dell’alba, il servitore Pasquale, andò a svegliarlo affinché si preparasse per bene e per tempo.
Pasquale era un uomo semplice, buono, che amava Domenico e del quale Domenico si fidava: era l’unica figura adulta con la quale avesse davvero confidenza.

Il bimbo, ancora agitato, sentiva di non poter tenere ancora a lungo per sé quel fardello dilaniante: lo confessò a Pasquale, che subito lo rincuorò. Gli fece capire che non s’era affatto macchiato di una colpa grave. Era convinto che qualsiasi fosse la colpa di un bambino, Dio non avrebbe potuto far altro che perdonarlo: perché era un bambino!

Domenico accolse quella posizione come una manna dal cielo e se ne convinse così ciecamente, che gli sembrò addirittura inutile rivelarlo al prete in procinto della Comunione!

Trascorse ore felici, la Prima Comunione si svolse con tutti i crismi: tutto bene, come previsto.

Ma le cose belle, come si sa, prima o poi finiscono, e la gioia durò poco. Cominciò a invidiare la spensieratezza dei suoi compagni. Percepì la sua festa avvelenata: aveva perduto l’ingenuità e la giocosità propria dei fanciulli. Mentre i suoi amici dovevano solo preoccuparsi di fare i bambini, lui era alle prese con il peso delle colpe e le tegole delle conseguenze.

Fu costretto ad ammettere a se stesso che Pasquale era sì un uomo buono, ma pur sempre un uomo ignorante, che non era nella condizione di potergli elargire la spiegazione che gli aveva fornito e che l’aveva liberato per un po’ da quell’atroce sofferenza. Aveva fatto la Comunione con un peccato gravissimo sulla coscienza: il sacrilegio si era perciò moltiplicato. 

Era spacciato. Anche a livello organico qualcosa in lui stava cambiando, aveva cominciato a somatizzare la sofferenza dell’anima che dal giorno prima lo prevaricava.

Il volto era sempre più pallido, tant’è che la governante lo riferì al padre.

Trascorsero i giorni, ma Domenico stava sempre peggio: il suo dolore lo divorava, a poco a poco, come un tumore.

Un giorno Domenico entrò nella stanza della governante, la signora Rop, e vide un libro, un trattato di religione. Il primo impulso fu quello di fuggire, come se la sola apertura di quel volume implicasse un agguato ai suoi danni. Ma da qualche parte scovò il coraggio, e lo sfogliò. A pagina 190 si paventò il colpo ferale: Chi sa di essere in peccato mortale deve fare una buona confessione prima di comunicarsi. E se si accostasse a ricevere la Santa Comunione sapendo di non essere in grazia di Dio, riceverebbe Gesù Cristo, ma non la Sua grazia, e commetterebbe un orribile sacrilegio rendendosi così meritevole di dannazione.

Domenico lasciò cadere il libro a terra e corse via, più spaventato che mai. Era terrorizzato all’idea di finire all’inferno, ma ora la staffetta dei peccati s’era così allungata che sapeva di non poter confessare più nulla. Deliberò così di farlo solo in punto di morte: tanto era giovane e avrebbe avuto parecchi anni davanti a sé per raggiungere un minimo di serenità.

Invece, Domenico si ammalò. Tutto ebbe inizio con una strana febbre che non smetteva, poi dolori lancinanti al ventre: quando le condizioni si fecero preoccupanti, i medici intuirono che si trattava di peritonite e vagliarono il da farsi, se operarlo o meno.

Inerme sul suo lettino, ipotizzò di poter morire e domandò il permesso di confessarsi a un sacerdote. Ma fu subito tranquillizzato circa la sua salute, dal padre e dalla governante. Tuttavia, poco dopo, il ragazzino entrò in una fase di delirio, e morì. [2]

Il bambino si svegliò in un mondo che non conosceva, immobile al centro di una ciclopica scala all'aperto.


Fu affiancato da una giovane donna, bella e finemente imbellettata. Gli disse di chiamarsi Maria Ferri, lo prese per mano e insieme scesero la scala per raggiungere la città: una città sulla riva del mare, che non possedeva un nome.


Domenico non aveva dissipato la sua tristezza. Il peso della colpa che l’aveva angustiato durante l’ultimo mese della sua vita, era ancora lì a schiacciarlo. Non gli interessava un granché di non essere più tra i vivi, tutta la sua attenzione era focalizzata sul tormento interiore che stava vivendo anche da morto.


La città era bellissima e i colori stupefacenti, le nuvole e il cielo parevano dipinti con tonalità sconosciute al mondo degli umani. Ma tutta quella bellezza a Domenico non faceva né caldo né freddo: pensava solo al suo peccato e alla dannazione.


Decise di raccontare a Maria ogni sua tribolazione. Ella entrò subito in empatia con il piccolo e fece del suo meglio per consolarlo, pur spaventata dalla gravità della colpa commessa dal bambino.


Il posto in cui si trovavano era una sorta di limbo: il luogo preposto all’attesa del giudizio, dal quale le anime si sarebbero mosse verso la salvezza o la perdizione eterna. La città era simile a quelle alle quali Domenico era abituato, eccetto per i tribunali, che ve ne erano a bizzeffe e riconoscibili dalle moli imponenti: emettevano sentenze dall’alba al tramonto.


Le anime conservavano le medesime sembianze umane che possedevano in vita e pure le abitazioni erano simili, con la peculiarità che non esistevano sporco né disordine.


Domenico e Maria incrociarono varie persone, per lo più anziane, i bambini erano una minoranza. Ascoltando le conversazioni di alcune anime come loro sedute nei paraggi, Domenico apprese che l’attesa avrebbe potuto protrarsi addirittura per molti anni; in genere, quelli che rischiavano la dannazione eterna venivano giudicati per ultimi. Purtuttavia, le eccezioni a questa regola erano giornaliere.


A un certo punto, arrivarono due valletti e, come se facessero l’appello, chiamarono lui e Maria: era giunto per loro il momento di entrare in tribunale.


Domenico venne condotto in un’aula gigantesca con scalinate a imbuto tipo stadio, gremite di spettatori che commentavano i giudicati di turno. C’era tutto: la difesa, che vestiva il solo bianco, l’accusa, vestita tutta di nero, e il giudice, giovane e bellissimo, vestito di porpora.


Era il turno di Domenico. Inizialmente notò i sorrisi del pubblico sterminato e del giudice stesso: immaginando che tale benevolo atteggiamento fosse dovuto alla sua tenera età. Ma presto le cose si fecero serie per lui.


Il giudice brandì un grosso libro e lì lesse il grave peccato di cui si era macchiato Domenico.


Accusa e difesa si affrontarono in un lungo match. La prima illustrò i motivi per cui avrebbe dovuto essere condannato, nonostante la tenera età. Il sacrilegio: Un duplice sacrilegio; egli ha profanato il sacramento tacendo per vergogna alla confessione il fatto di aver taciuto, pure per vergogna, a una precedente confessione, un peccato creduto mortale; una seconda volta ha sfidato la collera di Dio, ricevendo la Santa Comunione mentre sapeva di essere colpevole di sacrilegio.


La difesa tentò di smontare l'accusa asserendo che il peccato non era mortale ed era stato confessato, pur senza dilungarsi in dettagli.


La folla gli sembrò ostile: lo guardava con spregio, senza alcun segno di compassione. Ma all’improvviso, da una remota estremità del tribunale, prese ad avvicinarsi un uomo gridando a squarciagola: era Pasquale, il servitore della famiglia Molo. 


Domenico si domandò come avesse fatto Pasquale a raggiungerlo fin lì. Inoltre, una volta avvicinatosi, notò che egli esibiva intorno al collo un solco che non gli aveva mai visto.


Pasquale gridò a tutti di essere lui il vero colpevole, di essere stato lui a mal consigliare Domenico, a fargli credere che il suo fosse un peccatuccio da niente: «Domenico era intenzionato a confessare nuovamente e per bene ogni sua mancanza prima della Santa Comunione!», urlava disperato.
Al che il giudice, esterrefatto, si portò in piedi congedando la moltitudine e rimandando all’indomani la sentenza, perché sopraggiunto oramai il tramonto.

Pasquale prese Domenico per mano e, insieme, cominciarono a visitare la città prima di coricarsi per la notte nell’alloggio assegnatogli.


La prima cosa che notarono fu una nave gigantesca, candida e lucente, con una striscia azzurra lungo il fianco a loro esposto. Era affollata di gente felice che partiva per il paradiso. Dal molo dal quale era salpata, frotte d’anime salutavano i fortunati che cantavano e gioivano sopra il bastimento che, a poco a poco, s’allontanava verso l’orizzonte.


I due si mossero per altre vie e, di lontano, udirono melodie e canti festosi. Tra le donne, Domenico riconobbe Maria. La chiamò ed ella lo raggiunse giubilante per essere stata giudicata meritevole di salvezza: sarebbe partita con la nave del giorno dopo. Il bambino si congratulò e poi le riferì che il suo destino, invece, non era stato ancora deciso: avrebbe dovuto attendere l’alba.
Andarono a dormire.


Ma l’indomani, quando Pasquale e Maria si svegliarono, Domenico non era più nel suo letto. Il servitore, allarmato, corse per le strade a cercarlo, ma venne fermato e condotto in tribunale per la causa che lo riguardava.


Pasquale informò il giudice che della propria sorte non gli interessava nulla: aveva solo bisogno di sapere dove si trovasse il piccolo Domenico.


Ma il giudice lo inchiodò alle sue responsabilità: «Tu ti sei tolto la vita, ma che tu sia benedetto per l’eternità, anima semplice amica di Dio.»


Il servitore Pasquale era stato graziato e premiato col paradiso per la vita umile che aveva condotto e per il gesto d’amore fatto per salvare l’anima del suo padroncino.
Domenico venne giudicato vittima di un errore e rimandato nel mondo dei vivi. Si risvegliò in una camera d’ospedale, con la memoria di tutto l’accaduto. Gli dissero che aveva subito un intervento e che stava bene.


L’idea di aver vissuto in un sogno si dissolse allorché apprese dell'effettiva morte di Pasquale.
Da quella contingenza esperimentò una più intima consapevolezza di quella vita che, per lui, stava or ora cominciando.

FISSIAMO LE IDEE

Il Sacrilegio è un racconto intenso che mette mano a tematiche importanti: il senso di colpa e la ricerca del perdono, il rapporto tra fede e superstizione, la vita dopo la morte e il sacrificio e l'amore.

La narrazione comincia in medias res, con Domenico che prepara la sua anima per la Prima Comunione dell'indomani.

Il tema del peccato e della confessione emerge fin dalle prime righe.

La scrittura è accurata e ricca di dettagli, immergendo il lettore in un'atmosfera cupa e tormentata.

Il tormento interiore di Domenico si intensifica quando, durante la confessione, tace per vergogna il peccato di essere superstizioso.

Il senso di colpa lo assilla e lo porta a confessarsi nuovamente, ma la sua confessione non è completa.
La scoperta di aver commesso un sacrilegio lo terrorizza e lo fa sprofondare nella disperazione. La sua salute fisica ne risente e si ammala gravemente. Muore e si ritrova in una città ultraterrena simile all'aldiquà: una sorta di limbo con funzioni giudicanti.

Incontra la giovane Maria, un'anima defunta, alla quale confessa le sue angosce.

Il bimbo deve affrontare il processo che lo riguarda: l'accusa è di sacrilegio.

Pasquale, il servitore di Domenico, si sacrifica (si impicca, allo scopo raggiungerlo) per scagionarlo.
Domenico viene giudicato innocente e rispedito nel mondo dei vivi. Si risveglia in ospedale dopo un intervento chirurgico (per peritonite).

La morte di Pasquale lo porta a riflettere sul valore della vita, predisponendosi con nuova consapevolezza al futuro che verrà.

Il racconto è ricco di simbolismi: la città ultraterrena, la nave che porta in paradiso, il sacrificio di Pasquale.

La struttura del racconto è circolare, con il ritorno di Domenico alla vita dopo l'esperienza ultraterrena.

Concludo permettendomi una suggestione:
Io non so da dove Buzzati abbia tirato fuori i nomi per i suoi personaggi, tuttavia, mi piace pensare che il cognome di Domenico (Molo), sia sgattaiolato fuori per associazione con quel molo (in minuscolo, stavolta) dal quale salpavano i bastimenti per il paradiso.

[1] Nelle origini della Chiesa, i sacramenti dell'iniziazione cristiana – Battesimo, Cresima ed Eucarestia – venivano conferiti tutti insieme, di solito agli adulti. Con il tempo, l'ordine si modificò e la Cresima iniziò ad essere conferita ai bambini in età più avanzata, spesso intorno ai 12-14 anni, mentre la Prima Comunione veniva anticipata a un'età più giovane, intorno ai 7-9 anni.

    Questo cambiamento avvenne per diverse ragioni, tra cui:

  • La maggiore complessità della dottrina cristiana, che richiedeva un periodo di catechesi più lungo per i bambini.
  • La volontà di far partecipare i bambini all'Eucarestia, considerata un momento importante nella loro crescita spirituale.

Ancora oggi, in alcune Chiese orientali, si segue l'antico ordine e la Prima Comunione si riceve dopo la Cresima. Tuttavia, nella Chiesa cattolica di rito latino, la prassi più diffusa è quella di ricevere la Prima Comunione prima della Cresima.

    Ecco alcuni esempi di come l'ordine di ricezione dei sacramenti è cambiato nel tempo:

  • Nei primi secoli della Chiesa: Battesimo, Cresima, Eucarestia (tutti insieme)
  • Medioevo: Battesimo, Eucarestia, Cresima
  • XVI secolo: Battesimo, Cresima, Eucarestia (ripristinato l'ordine originario)
  • XX secolo: Battesimo, Eucarestia, Cresima (ordine più diffuso oggi)

[2] In realtà, il fatto che sia morto lo dice Domenico stesso poche righe dopo, quando il racconto cambia completamente ambientazione e il bambino si ritrova nel bel mezzo d’una lunga scala, spaesato.

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