ERA NERA, NERISSIMA. MA POI HANNO BUSSATO ALLA PORTA

 
ERA NERA, NERISSIMA. MA POI HANNO BUSSATO ALLA PORTA


Erano le 11:30 di un venerdì e, come ogni mattina, mi feci i cento metri di corridoio che separavano la mia aula da quella di mio cugino, il PiKe, al dipartimento di matematica. 
Sapevo che a quell’ora l’avrei pizzicato sulla panchina di fronte l’aula 11, o al bar attiguo, assieme a qualche amico. Quando arrivavo, puntualmente, li trovavo a parlottare di calcio, delle purghe di Totti, di qualche gol rubato o in fuorigioco. A me interessava solo la Formula 1, di calcio non ci ho mai capito un cazzo e allora, forse per solidarietà, alzavano l’asticella e i discorsi viravano all’altezza della fica, che di solito metteva tutti d’accordo.
A proposito, in quel gruppetto, di cui anch’io m’ero ritrovato a far parte, gravitavano cinque o sei ragazze, di cui due o tre assai carine. Me n’ero accorto io, ma se n’era accorto pure il PiKe, il quale commentava con rigore ogni culo che gli sfilava sotto il naso. Ma commentare era una cosa e agguantare un’altra. Eh, già, perché il PiKe era uno serio, mica bruscoli! Era alto, moro, con gli occhi verdi e considerava la fregna un oggetto di culto: la si poteva guardare, apprezzare e finanche votare, ma la cosa doveva finire là, perché a casa aveva una fidanzata ed era fedele.
Ero entrato in confidenza con due di quelle ragazze. Di entrambe ricordo bene le fattezze e di una pure il nome, ma visto che questo deve essere un racconto di fantasia, immaginerò di non ricordarlo e mi riferirò ad esse con: la mora atletica con gli occhiali e i capelli corti, e la bionda mesciata col rompicoglioni.
Voglio essere chiaro: il rompicoglioni era il fidanzato, che arrivava sempre sul più bello e se la portava via. Un giorno m’accorsi che questa cosa dispiaceva pure a lei: mi fece una smorfia come a dire, che palle, me tocca annà, fanculo! A scanso di equivoci: Il fanculo l’ho aggiunto io, un po' perché ci stava bene, un po' perché quel coglione se lo meritava tutto.
La mora era una sportiva, praticava il salto in alto a livello agonistico. Fantasticai più volte sul come avesse potuto vestire nel tempo libero o durante le serata più audaci, ma oltre la congettura non sapevo andare. Io l'avevo vista sempre e solo in leggings. A volte blu, spesso neri. Allorché si congedava, era piacevole vederla scivolare via: più la osservavo dileguarsi, più il suo sedere mi proponeva l'immagine d'uno schiaccianoci di metallo temprato. Con lei non sono mai andato oltre il testing del terreno. Le lanciavo solo, di tanto in tanto, delle micro allusioni… Tant’è che il PiKe, in separata sede, sentì il bisogno di dirmi: «Maialino… Sempre co’ ‘sti complimenti sottobanco… Ma tanto è fidanzata, è inutile che insisti co' 'sti messaggi sub-Linguali!»
«Io non insidio e non insisto: testo», gli risposi ridacchiando. «Che ne sai, magari a forza de testà, se finisce col tastà», e gli strizzai ironicamente l’occhio.
In ogni modo, il PiKe aveva ragione. Per qualche oscura trama del destino, tutte quelle che mi piacevano erano sempre fidanzate. E qui, ancora una volta, ci sta bene il mio fanculo omnicomprensivo!

Ma adesso che ho portato il forno a temperatura, veniamo a noi, al vero oggetto di questo racconto.
Quella mattina, come arrivai alla panchina notai ch’era più in fermento del solito. Tutti avevano la faccia scoglionata e capii presto il perché. 
C’era la napoletana che domandava aiuto a destra e a manca. Pregava, con una certa insistenza, che qualcuno andasse con lei nel laboratorio di informatica per farle fare un po’ di pratica con la shell di Unix, perché avrebbe dovuto sostenere l’esame e lei aveva dimestichezza solo con Windows.
Tutti la chiamavano la napoletana perché era casertana d’origine, ma viveva a Tor De’ Cenci. Era abbronzatissima, quasi marrone, sempre strizzata in un paio di jeans e aveva occhi del colore dell’abbronzatura, grandi, tondi e ravvicinati. I capelli le arrivavano alle reni, ed erano neri e lisci.
A me la napoletana non era stata mai un granché simpatica, nulla di personale, s’intende. Ma un po’ per le sue battute che non capivo, un po’ per la voce acuta e alla lunga fastidiosa, preferivo non incentivare la conoscenza e limitarla al saluto, e al sorriso, qualora funzionale allo svincolarmi.
Come da copione, tutti le diedero picche. Le dissero di non rompere i coglioni e che avrebbe potuto svegliarsi prima e non a due settimane dall’esame.
Non le rimase che andare a rompere l’anima allo straniero e ultimo arrivato, che nella fattispecie ero io. E complice il fatto di non aver instaurato con lei la necessaria confidenza per accodarmi alla platea degli sfanculatori, cedetti al sesto ti prego, aiutami!, rigorosamente a mani giunte.
A malincuore mi sollevai in piedi, mentre il PiKe mi guardava con sospetto, sghignazzando spudoratamente sotto i baffi: «Cojone con la J… Te sei fatto ‘nculà!»
Mentre furente lo puntavo di sottecchi e stavo per fulminarlo con un: “Ridi, ridi… Che oggi te ne torni a casa a fette!”, il verbo mi morì in gola, poiché realizzai ch’eravamo venuti con la sua Alfa 90 a gas, e così mi feci appassire le orecchie e gli rifilai il solito e inflazionato fanculo!

Il laboratorio di informatica stava dietro la terza o quarta porta del corridoio prolungamento del nostro; per intenderci, quello che cominciava oltre il grosso atrio a T, che ospitava il bar e permetteva l’accesso all’esterno.
Nell’aula c’erano quattro gatti. I terminali erano organizzati su tre file di banchi, e ogni banco ne ospitava due.
Feci strada e per comodità imboccai la prima fila, tanto una valeva l’altra.
Ma lei mi sfiorò l’avambraccio, bloccandomi. «Andiamo dietro», mi disse.
Non ne vedevo il motivo, tuttavia non protestai e la seguii.
Questa cosa mi ricordava i tempi della scuola, quando accaparrati i posti agli ultimi banchi, ci si illudeva di non essere adeguatamente veduti dagli insegnanti. Pratica che fungeva da mero rito scaramantico: i nomi degli interrogati non venivano quasi mai pescati a vista, la ricerca era affidata al polpastrello che, inesorabile, scorreva verticalmente sulla pagina del registro; che all’epoca era un fascicolo dello spessore d’una rubrica: stretto, lungo e dalla copertina che tendeva al vermiglio, come il sangue dei chiamati in battaglia. Eh, già, perché per uno studente quel momento era un po’ la chiamata alle armi, c’era chi partiva armato fino ai denti e chi con le pezze ar culo, dritto al macello.
Fatto sta che mi portò alla penultima fila: all’ultima, invece, c’era una ragazza china sulla tastiera che pestava sui tasti con la stessa violenza con la quale si sarebbero pestati quelli d’una vecchia macchina per scrivere meccanica.
Per praticità ci scambiammo di posto: io mi piazzai alla tastiera e lei alla mia sinistra.
«Fai il login», le dissi.
Si cacciò le unghie di una mano tra le labbra. «E mo chi se la ricorda la password?!», mi rispose come se il problema fosse il mio.
«Uhmmm», mugolai. «Se questo è il buongiorno…», commentai sarcastico. E dato che non m’andava proprio di tergiversare, tagliai corto ed entrai nel sistema con le mie credenziali.
Ero intenzionato a darle un’infarinatura di massima circa i comandi principali che le sarebbero potuti risultare utili e mi sarei liberato il prima possibile da quell’impiccio, nel quale ero sprofondato con tutte le scarpe.
«Vedi?», le dissi. «Questo è il comando ls, serve ad elencare i file e le directory nella cartella corrente.»
«Sì, sì…», ribatté lei prontamente.
«Ecco…», continuai. «Con cd puoi cambiare la directory di lavoro e con cd.. passi alla directory padre della cartella corrente.»
«Sì, sì…», ripeté lei.
Troppi sì, sì e troppa certezza, per una che non si ricordava nemmeno la sua password. Così ruotai la testa di novanta gradi e la squadrai. La sorpresi a guardarsi le braccia e la striscia di pancia che s’era leggermente scoperta.
«Senti», le dissi. «Mi dici cosa siamo venuti a fare qua? Se non te ne frega un cazzo, annamosene. Ho di meglio da fare e, tra l’altro, me sto pure a fumà sotto.»
Ed era verissimo. Magari la ragazza bionda con le meches di cui vi ho accennato all'inizio era già fuori. E io non vedevo l’ora di parlarle, che per me era un po’ come flirtare e, in questa cosa stupida, ma così intrigante, sentivo d’essere ricambiato.
«No, no, mi interessa eccome!», esclamò la napoletana avvicinandosi con la sedia e fissando lo schermo a fosfori verdi.
Dunque, mi misi di buona lena e ripartii. «Questo è il comando vi, manda in esecuzione un editor di testo. Ti servirà, all’esame, per battere il programma in C. Tu stai studiando il linguaggio C, giusto?»
Sgranò gli occhi, che adesso parevano ancora più vicini, sputò fuori un pezzo di lingua e scosse la testa in una risata tarantolata. «Non ne ho proprio idea!», esclamò col tono di chi era appena cascato dal pero.
A me cascarono le braccia.
Qualche istante dopo però, stavolta con convinzione, tornò a fiatare: «Certo che sono proprio nera, eh?»
Io restai con gli occhi allo schermo e, avendo capito d’essere finito lì esclusivamente per perdere tempo, avviai la procedura di spegnimento della macchina.
Ma lei proseguì imperterrita. «Guarda come sono nera…», la voce soddisfatta e maliziosa.
Indossai la faccia di cui al capitolo 8, ovvero faccia “PALLE-FRANTUMATE” e mi voltai a guardarla.
Cazzo!, dissi tra me e me.  I suoi jeans erano assicurati alla vita con una grossa fibbia ovale di metallo: i pollici delle dita ci giocherellavano, alzandola e abbassandola, coprendo e scoprendo la parte bassa del ventre. Fu solo un istante, ma l’occhio mi cadde proprio lì dove stava armeggiando. Il ventre, finemente abbronzato, culminava senza effetti di transizione su un’intimità così nera e arruffata che non avevo visto nemmeno sui giornaletti del CeTrillo! (Il CeTrillo era un personaggio della mia adolescenza. Un ragazzo di una decina d'anni più grande di me e del PiKe, che per primo ci rivelò, con tanto di prove fotografiche, l'esistenza dei cosiddetti giornaletti zozzi. Avevo 11 anni al momento della rivelazione: ero un bambino, e ne rimasi scioccato).
Se non mi fossi trovato lì e non sapessi esattamente di cosa stessimo parlando, avrei potuto giurare di aver visto gatta e cucciolata, RIGOROSAMENTE tutti neri.
Insospettabile. Fu forse per via dell’estate, che sarebbe cominciata di lì a un mese, che me la figurai in costume. Poi pensai alla steppa nera, dunque alla foresta pluviale del Congo. Il meccanismo che regola l'associazione (più o meno libera) di idee è sempre stato un buco nero per me.
Le mie improvvise elucubrazioni vennero rotte da due colpi secchi alla porta: questa si spalancò e due tizi sgattaiolarono dentro. Uno dei due mosse lo sguardo un po’ di qua e un po’ di là, come alla ricerca di qualcosa, o qualcuno. La ricerca non sarebbe durata a lungo: eravamo quattro gatti, di cui uno nero, nerissimo.
D’improvviso, il gatto si ricompose e scattò prima sulla sedia e poi in piedi, corse verso la porta e tutti e tre sparirono da qualche parte fuori dalla stanza.
Rimasi lì come un coglione, anzi no, come un cojone con la J, per dirla alla PiKe. 
Attesi cinque minuti e uscii pure io.
Arrivato alla nostra panchina, quella di fronte l’aula 11, ad aspettarmi c’erano Tiziano e il PiKe, che stizzito mi fece: «Oh, ma che cazzo è successo? È passata la napoletana col fidanzato, non ha manco salutato, pareva avesse visto un fantasma: era bianca, bianchissima, cazzo!»
Fui scosso da una genuina risata sardonica. «Ma che cazzo ne so, quella è tutta matta», gli dissi, cacciandomi le mani nelle tasche. «Ma te posso giurà ‘na cosa, che n’attimo prima era nera, nerissima!»



Commenti

  1. (A)micheTTo miissimo! Sembra di dover diffidare delle corvine che annaspano nell'informatica e invocano assistenza ai secchioni, perchè l'SOS può offrire il pretesto per esibire la propria abbronzatura.
    Cadere nell'equivoco è un attimo: in un gioco delle parti a calare le braghe è l'insospettabile!
    E la corvina, pur essendo pesta è costretta a sbiancare.
    Divertente, arguto, goliardico: ci sono tutti gli ingredienti per cui questo (T)uo spaccato di gioventù conquisti l'attenzione del lettore.
    Devo dire che anche l'illustrazione, tutto sommato, risulta intonata. E per giunta, premia la gonza elargendole quella concentrazione e quell'interesse di cui sembrava orfana.
    (T)i do un (A)bbraccissimo!!!

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    1. Oh, (A)micheTTa mia... Quanto affanno per centrare l'illustrazione! Hai comunque ragione, la fanciulla che ho scelto sembra più avveduta di quella descritta nel racconto, ma le altre mi convincevano ancora meno! ;-) ;-)
      Diciamo pure che i miei taccuini, vecchi e nuovi, mi offrono spesso frangenti, spunti ai quali attingere: il resto lo fa la fantasia. No? La fantasia modella, trasforma un momento di imbarazzo in un evento goliardico, e infine in narrativa.

      Felicissimo (T)i sia piaciuto!
      (T)i (A)bbraccissimo!

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  2. Sono qui perché ho letto il libro. Una scrittura magnetica. Immaginavo che dietro ci potesse essere un 'cosmo'. --- C'è tanto da leggere qua dentro, serve tempo e lucidità. Io non so quanto ci sia di vero in questa storia e non è nemmeno interessante saperlo. È in questo tuo [posso permettermi il tu?] modo di dire le cose e di non avere paura che sta la fascinazione. ---

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    Risposte
    1. Innanzitutto, grazie. Per aver letto il romanzo e per le belle parole spese.
      Va benissimo il "tu", gentile V.

      Io sono un contastorie. O meglio, un contastorie nello spirito, ma un novellatore nella realtà dei fatti, visto che le mie storie le racconto per iscritto.
      È corretto quello che dici, non è interessante né importante sapere quanto ci sia di vero in una storia. Così come secondaria deve risultare la figura dell'autore.

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