Zagara (racconto breve, giovanile)




Aveva smesso di piovere già da un pezzo.

Sulle mani, intirizzite, il gelo apriva scaglie vive, e poi cremisi me le seccava. Alla schiena era andata pure peggio. Il mantello, nero, greve e fradicio mi lambiva la spina dorsale con la passione d'una carezza di ghiaccio, che graffiante mi rizzava dritto a ogni impronta dell'incerto mio incedere.

Mi ritrovai lì, d'improvviso, a errare in una terra che disconoscevo. Le narici mi si muovevano goffamente, come la pelle d'un tamburo percossa da colpi aritmici. Come un pendolo squinternato che oscillava nella brezza, la mia testa guizzava maldestra, guidata da correnti invisibili e, purtuttavia, prepotenti alle frogie.

Miele. No, non profumava neanche alla lontana di miele d'acacia. Quello lo conoscevo bene. Di agrumi. Folgorante, mi sovvenne.

«Di Zagara», una voce suadente e ritmata mi arrivò dritta nelle orecchie. 
    
Mi voltai, ruotai su me stesso. Non vidi nessuno.
    
Si alzò il vento, si sollevarono polveri e più il mulinello m'avvolgeva, più quella voce, ancor più limpida tuonava. «Di Zagara», udii ancora. «È il Vento che ti parla.» 
    
I viandanti si sa, fanno razza a sé. Eccentrici. Saggi, talvolta. Conoscono i venti e i venti sanno come riconoscere loro. Si racconta che abbiano due soli compagni. Il bastone, per saggiare. Il vento, per sapere dove andare. Anch'io avevo i miei. E l'altro, presto mi resi conto, non era il bastone.

D'improvviso, si materializzarono due uomini che provenivano da direzioni opposte e, all'unisono, mi urtarono entrambe le spalle.

Quello anziano, azzimato, emanava un'aura di raffinata eleganza. Era completamente vestito di bianco, un candore immacolato che accentuava la sua statura imponente e l'aria di saggezza che effondeva dal suo volto scolpito dal tempo.

L'altro era giovane, magro, piccolo, e vestiva il solo nero.

Mai veduti prima.

In un perfetto sincronismo misero mano al cappello, si toccarono la falda e con un cenno reverenziale del capo abbozzarono un saluto.

Io feci lo stesso.

«Che buon profumo di arabica!», urlò l'uomo vestito di bianco.

«Arabica? Ma come arabica? Pollo fritto!», ribatté il giovane vestito di nero mentre s'allontanava dall'altro.

L'uomo in bianco girò sui tacchi, invertì la marcia e infervorato prese ad andargli dietro. Li osservai discutere sulla qualità dei rispettivi olfatti fino a quando le tenebre inghiottirono figure e suoni.

Strabuzzai gli occhi e m'accigliai esterrefatto. Pensai fossero due pazzi. Pollo fritto? Arabica?

Era miele! Palesemente miele! Intensamente miele! 

Attorno avevo solo terra, percepivo solo terra. Tanta. Bagnata.

Mi venne da pensare alle mie scarpe. Chinai il capo, mi voltai. Tornai diritto. Ai piedi non avevo nulla. Non avevo più le mie scarpe. I piedi erano nudi, avvertivo il fango aggrappato ben oltre le caviglie. Tentai di scrollarlo, una, due, dieci volte. Niente, non andava via.
    
«Mai andrà più via. Così è scritto», lo stesso Vento di prima, sempre da dietro, mi mormorava secco.

Impregnato, inspiegabilmente fiero, dal solo olfatto scortato, mi ritrovai al confine di quella terra che caliginosa sentivo stranamente non essermi ignota.

Una frase che non sapevo come giustificare, frastornante, mi scorreva indolente nella testa da tempia a tempia, e nel fragore mi scuoteva le membra.

Nella terra dei due colori, le arroccate pietre, mai orbe, riconoscevano dotte nell'una i confini dell'altra.

Era forse quella la terra dei due colori? Ma poi, che significava? Stavo impazzendo? Forse ero già pazzo? O magari, ero solo morto.
Non ebbi neanche il tempo d'abbozzar congettura che l'oscurità venne lacerata da un chiarore confinato, tremolante. Le fattezze erano quelle di una piccola baita tratteggiata dalla luce fioca di un lume piantato sul portichetto innanzi il pertugio d'ingresso.

Mi avvicinai.

Sulla porticina stagliava il battente, anulare e d'ottone. A neanche un metro, sulla stessa ala, campeggiava bassa l'unica finestra. Alle imposte era applicata una grata di ferro grezzo che ripartiva il vetro in quattro celle. Tutte uguali. Tutte appannate. Dall'interno, una luce gialla, ne delineava gli orli e arrendevole trapelava dalle fenditure.

Avevo voglia di sbirciare, sapevo di doverlo fare. Ma questo non me l'aveva imboccato il Vento. Lo sapevo da me.
Voglie e desideri non li delego. Mai.

Adesso, mani sapienti afferravano del pane già tostato, e spalmavano burro. Tanto. Non avevo mai veduto così tanto burro su di una fetta sola. 

Radente, la mia mano scivolò lungo il mantello a cercarne l'orlo. Ne afferrai un lembo e lo usai per ripulire il primo quadrante di quella finestra.

La cultura è davvero importante, mi dissi. Se in terza elementare il mio maestro non m'avesse parlato della cavità toracica, quella notte, per quanto me la sentivo pulsare, avrei scommesso che il cuore fosse localizzato in gola.

Ecco che uno spargimiele, spavaldo, penetrò la mia inquadratura. In legno d'ulivo, agli occhi. Lussureggiante, ai pensieri.

Con la bocca semiaperta, immobile come uno stoccafisso, godevo di quella scena rubata. Lo vedevo ricolmo e rilucente gremire burro, pane e quelle dita, che scaltre, mi violentavano i pensieri verso racconti arditi.

Quanta storia m'avrebbero potuto raccontare quelle dita, che come archetti dirigevano e affusolate ammaliavano.

Ma poi, parliamoci chiaro, l'avrei davvero voluta conoscere tutta quella storia? Allora lasciai decidere al cuore già stregato. M'aggiustai la tesa del queensland che portavo sul capo, feci un lungo respiro, e mi dissi di no. Quando una donna ti toglie il respiro, il solo pensiero delle sue carezze su una geografia diversa dalla tua ti manda ai matti. Un po' come nel poker alla texana, se il tuo avversario va in all-in, non sei mica obbligato ad andarlo a vedere. Talvolta, è meglio non sapere. Quello che non sai, non è mai accaduto.

Tornai ad accostarmi a quella finestra un'ultima volta. Un ultimo sguardo a quella lunga veste nera che solo di spalle m'era fatto dono scorgere. E a quelle dita... Quanta storia ne avrei voluta io, con esse, tutte e sole, scriverne.

Non mi riusciva più di vederla.
Il mio muscolo cardiaco impazzava. Feci un balzo, poi m'inerpicai, passai in rassegna tutti i quadranti di quelle tessere vetrigne, mi ci spiaccicai contro, ma niente. Volatilizzata. Come quando cala il sipario. Lo spettacolo è finito e tanti saluti.

Le mie orecchie vennero pungolate da un fragore in due tempi. Lo percepii venire di lato, dalla mia sinistra, un rumore secco seguito da un cigolio.
Era la porta. Socchiusa, adesso.

La fanciulla era di nuovo nella mia prospettiva: era stata lei. Doveva essersi accorta di me. Me ne convinsi.

Il tempo di inspirare, e fui dentro. Lei era ancora di spalle quando, accompagnandola per non far rumore, richiusi la porta alle mie.

Dischiusi le labbra, e ancor prima che io potessi proferir parola, mi arrivò davanti. Scalza, anche lei. Tese un braccio verso il mio viso e con foga poggiò le sue dita, affilate come lance, attaccaticce, contro le mie labbra.

Del Vento neanche il sibilo. Ma egualmente, nella testa, una voce di donna mi richiamava al silenzio. Perentorio.

Tentai di puntellarmi le labbra con la lingua. Impattai a più riprese contro quei polpastrelli che umettati me le serravano e grondanti spargevano nettare tra i miei baffi che scendevano diritti come binari ai lati del mento.

Cominciavo anch'io a sapere di miele, e profumavo.

Sapevo di dovermi sedere. La fanciulla taceva: ma solo con la bocca.
   
Ora era su di me, a cavalcioni. La mano ancora a giocare alla museruola. I suoi polpastrelli mi martellavano al ritmo di un motivetto che mentre lo intentava le illuminava gli occhi a festa, e lo sguardo trasognante, come quello di una bambina affaccendata a scartare il suo regalo. L'altra mano brandiva quella fetta strabordante. Candida e dorata, come la nudità di quella sua pelle che il solo bramar di sfiorare mi permettevo. Per non sciuparla. Benché di già m'avesse rapito, non accordavo neanche ai miei pensieri il lusso di scorgerla in profondità.

Con moto ondoso mi si avvicinò al petto. Il bacino dondolava lento su quanto di mio di certo non mentiva. Quando la mia emozione, pulsando, si fece imbarazzante, insistente, percepii il suo respiro, di concerto col mio, trafelato. Ora i suoi occhi erano serrati. Ma la danza non ebbe fine. Viso contro viso. Vidi la sua bocca sfiorare la sua stessa mano che ancora tappava la mia e, affannosamente languida, mi fece scivolare in un orecchio: «Zitto... Stai zitto. Respira, solo di questo abbiamo bisogno, adesso.»

La faccenda non m'era affatto chiara. Se anche fosse stato tutto un losco tranello del destino, se anche mi stessi giocando la vita, il solo ritrovarmela avvinghiata col suo fiato commisto al mio, avrebbe giustificato il mio risponderle valoroso: «Obbedisco.»

«Ce l'hai fatta ad arrivare», mi disse con voce struggente. «Temevo non arrivassi più.»

Avrei voluto parlare anch'io. Raccontarle di quella notte pazza e magica, di quelle scarpe che più non possedevo, di quella terra dei due colori evocativa e criptica fin dal nome, ma che or ora presagivo mia. E poi di quel Vento, e di quel profumo di miele che da lei m'aveva condotto. Le avrei parlato di me per tutta la notte. Ma non feci in tempo a dirle nulla. Ancor prima di realizzare di aver riavuto indietro le mie labbra non più occluse, la sua mano aveva già passato il testimone alla sua bocca. Sentivo la sua lingua percorrerne i contorni e poi rincasare. Deglutiva e di nuovo la rispediva fuori, in prima linea, a tormentarmi. Quei baci sapevano di buono, di nuovo. Di una bellezza che le labbra mie, scarlatte e gonfie, non avevano conosciuto prima di quell'incantesimo.

Mi dimostrai indisponente. Le mostrai di non aver imparato la lezione, e fiatai: «Che fai adesso, mangi?», le domandai, immaginando il miele che le scorreva in gola.

«Sì, ti mangio. E adesso ti bevo, pure», stavo per sorridere quando con la reattività di una mangusta s'avventò sul mio labbro inferiore. Lo succhiò, e affondò gli incisivi. Un taglio secco, e rivoli di sangue a scendere copiosi.

Si portò l'altra mano alla bocca e diede un morso a quella fetta di pane e burro e miele, che arrogante non accennava ad abbandonare alcuna delle mie fantasie.

Non avevo mai veduto un sorriso così brillante, una chiostra di candore che mi ammutolì. Diciamo pure che nulla di quanto mi accadde quella notte io avessi già veduto, o provato.

Aggraziata, sorridente, con ancora stille del mio sangue sulle labbra imburrate, mi disse: «Lo so. Questo, non te l'hanno mai fatto. Ma non avrei potuto leccare le tue ferite se prima non ti avessi lacerato. Quello che ti offro io è quello che non c'era. Quello che non credevi fosse possibile avere. Io ti offro il sogno.»

Ero frastornato, e non seppi nasconderglielo. Ma quel bruciore sanguinante non mi creava disagio. Mi convinsi fosse un qualcosa simile a un processo di purificazione. Necessario. L'avrei fatta continuare se solo l'avesse voluto. Purché a lacerarmi, ovunque, fosse sempre e solo lei.

Il mio sguardo si posò sulla sua mano imbrattata di miele e sul burro di me imporporato.

«Perché guardi il pane? Per quello abbiamo tutta la vita. Stringimi. Forte. Più forte.»

I suoi piedi, irrequieti, giocavano con i miei, fermi. L'argilla che prima era solo mia, adesso, era la nostra. Le infilai le mani sotto la veste. Le feci scorrere dalle reni fin sopra le spalle. Avide. Era bollente. Il tepore della sua schiena me le scaldava. La trassi a me. Poggiai il viso tra i suoi seni. Mi ci saldai. A quel punto potevo anche morire.

Ma non morii. Le domandai soltanto, trafelato, tanto da sembrare più una confessione che una domanda: «Quanto forte vuoi che io ti stringa ancora?»

Ferma nella mia morsa, serafica, ella mi rispose: «Da lasciarmi solo in vita.»
  
Fu allora che riconobbi in lei la voce del Vento che in quella terra m'aveva scortato. D'incanto, tutto m'era cristallino. Era lei che mentre m'attirava col suo profumo di miele di Zagara, scoraggiava gli altri viandanti, indirizzandoli altrove con gli effluvi più disparati. E la mente mi corse rapida a quei due uomini incontrati solo poche ore prima.

Quel profumo senza storia l'aveva confezionato per me, e con esso, ella m'aveva scelto.

Commenti

Lettori fissi

Post più letti di sempre

Nudo

Tutto inizia. Il meglio finisce. Perché mai diventi il peggio.

Il viaggio di G. Mastorna - Il film maledetto di Federico Fellini

Post più popolari

Il mio eucalyptus

Un punto, per ogni taglio

Buona la prima (longevità della parola data)