Il carbone e la befana

Befana


Ero solo un ragazzino.
    Mi piaceva il carbone. Da morire. Quello dolce, a tocchi, che trovi nelle calze preconfezionate. O meglio, quello che trovavano i più fortunati. A me, non capitava mai. E questo mi dispiaceva, e non poco. Per i miei cuginetti, invece, era un appuntamento fisso. E quando non mi riusciva di rubarglielo, lo barattavo con qualche cianfrusaglia e lo assaggiavo per mano loro.

    In famiglia facevo il discolo di proposito, perché così m'avevano raccontare di fare. Eppure, niente. Non m'arrivava mai.

    La mia sorellina, ch'era più grande di me, mi faceva: «Il carbone sta dentro le calze piccole che si comperano alle bancarelle. A te la befana ha sempre portato la calza gigante piena zeppa di cose buone... Di che ti lamenti?!»

    Sarà, mi dicevo. In effetti, a esser grande era grande, ma... Il carbone, neanche a pagarlo.

    A distanza di anni, da buon viandante, ci ho voluto riprovare.
    La scorsa notte, mentre rincasavo, sono incappato in una faccenda niente male, e dalle sembianze di donna.

    Ero in marcia da oltre un'ora, avevo le vesciche ai piedi e avanzavo con la grazia d'un palo. Imboccai quella che ricordavo essere una scorciatoia, e che non battevo da anni. Permutai le luci con la penombra, il bitume col fango ghiacciato, e aggirai il ponte della Acque Medie infilando il tratto sterrato. 

    Fu allora che la vidi. Mi piombò sotto. Mi bastò di scrutarla per pochi istanti, e fui certo d'incanto di avere a che fare con la befana. Non ebbi alcun dubbio. Anche perché a un certo punto m'accennò qualcosa riguardo la scopa. E io, francamente, come sento scopa da una donna mai veduta prima, non mi formalizzo più di tanto, e penso subito alla befana.

    Era più bassa di me. Abbondantemente e nonostante i tacchi. Di quasi una testa. Mi diede un'occhiata sommaria e mentre fingeva di sistemarsi quella che a me, in parvenza, pareva una cinta allungata, ma che quelli che parlano bene avrebbero di certo chiamato gonna, mi disse: 
    «Ti va?»

    Mi ritagliai il tempo per un lungo respiro mentre ancora le osservavo la bocca dischiusa e malamente imbellettata.

    «Mi perdoni, signora. Sono fuori per il carbone, stanotte», le replicai con fermezza.
    Prese a sollevarsi con entrambe le mani quel che rimaneva della stoffa sotto la vita. A quel punto, io che non dormo da piedi, immaginai lo stesse facendo per il timore che l'oscurità rotta da quell'unico fioco lampione, non m'avesse fatto ancora intendere che la befana tutto indossasse fuorché le mutande.

    «Ragazzo, ho tutto quello che ti serve. Ed è tutto qui. Vieni, vieni, che ne ho tanto di carbone... E fuoco.»

    Le mie certezze, d'un tratto, vacillarono. E allora scaltro, m'attanagliò il dubbio. Non ero più affatto certo ci stessimo riferendo allo stesso articolo. Le posai il mio sguardo addosso, lo feci scorrere da capo a piedi e arrangiando poi le labbra in un ghigno, pensai: Allora la mia è proprio una condanna... Io e il carbone, uno da una parte, e uno dall'altra.

    Mi sistemai la tesa del queensland che portavo sul capo, e dissi la mia col tono più saggio che scovai
    «Si copra, signora. Fa freddo, stanotte», e ripresi la mia marcia.

    M'ero già avviato per una ventina di metri quando udii ancora la sua voce roca provenire da dietro, ben oltre le mie spalle.

    «Ragazzo! Ragazzo, dico a te! Ma non avevi voglia di carbone? T'assicuro che così rovente...»

    Ecco, se sette anni prima non avessi smesso di fumare, adesso, avrei frugato le tasche e tirato fuori Zippo e Chesterfield. Tutto m'era eccentricamente chiaro. Tanto ieri, da piccino, quanto oggi, da uomo.
    Torsi il collo, la guardai di traverso e spavaldo alzai testa, cappello e voce:
    «Dice bene, signora. Dice bene! Certo che lo volevo, l'ho sempre voluto. Ma... Che le devo dire, evidentemente, non l'ho mai meritato.»

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