"Hai paura?": quella, era la domanda




A che serve girarci intorno: stavolta l'ho sentita.
    Ed era la prima volta, benché fosse nell'aria: era già qualche mese che mi avvertivo strano. Mia mamma mi diceva: non ti vedo bene in viso. Ma io non ci davo troppo peso, mi convinsi che fosse una condizione psico-fisica dovuta all'eccessivo stress, che non m'è mai mancato.
    Quella notte non erano più solo vibrazioni ovattate che orchestravano nella penombra. Quelle che, per inciso, s'annidano nel sospetto e ruotano in circolo mentre tu smarrito stai nel mezzo, ma che poi alla fine non senti mai: il petto s'acquieta e finisce là.
    Ma non era nemmeno una campana, come s'erano affrettati ad avvisarmi: era piuttosto una voce menata dal vento e che soffiava di lontano. Un po' come quando sei lì che pesti la banchina e alle orecchie ti arriva il fischio del treno che ancora non vedi. C'è gente vicino, s'arrabatta, maneggia maniglie, concitata alza la voce, si bacia. Tuttavia, sei conscio che tutto quello è già solo lo sfondo sbiadito di quanto è stato: perché sai che quel treno s'affretta per te. In molti saliranno, ma al capolinea sospetti che scenderai solo.
    Fu alle quattro che mi svegliarono. La notte era fonda, ma aveva luci come i raggi del meriggio.
    La mia bocca era impastata come in preda all'arsura. Eppure, avevo freddo. I tre in camice bianco mi gravitavano attorno, ma nessuno mi copriva. Non facevo altro che ripetere come fosse una litania le uniche parole che parevo conoscere: «Non per me, non per me...»
   Questa, era la risposta.

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